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The world press on Giovanni Arrighi by Tausch, Arno 20 June 2001 07:29 UTC |
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reuters archive, last 10 years. some interesting stuff. selection is of course again reuters', not mine! Giovanni Arrighi's impact on the world press debate has been present in many countries as well, especially in Italy and Brazil. Since I permitted the system to retrieve articles in other languages as well, there are several articles this time in Italian, Spanish and Portuguese! enjoy the reading arno tausch 27May2001 ESPAÑA: Charlas, cuentacuentos y exposiciones en la Semana solidaria. Por S.MORENO. Bajo el lema Inmigración, Cooperación y Desarrollo, el Consejo Local de Cooperación y Derechos Humanos, creado hace un año para sensibilizar a los vecinos de la pobreza y marginalidad que vive el tercer mundo, ha organizado la segunda Semana de la Solidaridad con los Pueblos, con dos millones y medio de presupuesto A partir de mañana, los alcalaínos podrán participar en varias actividades solidarias. Conciertos de música étnica, cuentacuentos, exposiciones y mesas redondas en la biblioteca Cardenal Cisneros serán algunas de ellas. Los debates y coloquios en los que participarán ONG del municipio y especialistas en inmigración estarán centrados en las causas de este fenómeno y, en concreto, de la mujer inmigrante. El prestigioso profesor Giovanni Arrighi ofrecerá una charla sobre la globalización en la Cámara de Comercio el jueves, titulada Tercer Mundo, subdesarrollo y justicia. El pregón se hará coincidir con el fin de semana, y correrá a cargo del alcalaíno Miguel Ángel Pérez, presidente de Médicos Sin Fronteras. Ayuda en Acción se ha encargado de organizar la exposición fotográfica La infancia en la India y Nepal. Durante los próximos siete días, cada ONG con sede en el municipio tratará de promocionarse y concienciar de las necesidades que tienen otros pueblos desde las casetas informativas que se instalarán en la plaza de Cervantes. En ellas se expondrán y venderán objetos artesanos, material bibliográfico y publicaciones de Unicef, Ayuda en Acción, Sodepaz, Acción contra el Hambre, entre otras. Los próximos dos días se celebrará una actividad que no se realizó en la primera semana solidaria, en noviembre del pasado año. Miembros del Consejo de Cooperación con su responsable municipal a la cabeza, el primer teniente de alcalde, Luis Suárez Machota, ofrecerán charlas de inmigración a los escolares. Los centros seleccionados han sido el Infanta Catalina, Nebrija y Antonio Machado. La semana solidaria también dedicará un espacio al cine y a la gastronomía. (c) Copyright Ediciones Periodísticas S.L. http://www.diario16.es. Sources:DIARIO 16 27/05/2001 <<...>> <<...>> <<...>> 05May2001 CHINA: EDUCATION LISTINGS. Send listings to Tracey Duggan, Education, 16/F, Somerset House, Taikoo Place, 979 King's Road, Quarry Bay. Fax: 2811 1048, e-mail: education@scmp.com FAMILIES Adventure in Rainbowland: sponsored by the Shell Better Environment Awards Scheme. Performances by students and graduates of the Academy for Performing Arts with puppets representing sea creatures. Sunshine City Plaza, Ma On Shan, tomorrow 2.30pm and 3.30pm, and Hong Kong Cultural Centre, Tsim Sha Tsui, May 12 4pm. Tel 2584 8500. SCHOOLS International Conference on Multiple Intelligences - Association for Supervision and Curriculum Development: presenter Dr Thomas Hoerr. Hong Kong International School, Black Box Theatre, 700 Tai Tam Reservoir Road, Tai Tam, Friday and May 12 9am-4pm. Discount registration price $2,200. For information and registration, go to www.ascd.org. Dulwich International College (Phuket): headmaster Christopher Charleson will be available to meet parents. Excelsior Hotel, Tuesday to Thursday. Tel 2894 8888 or e-mail ccharleson@dulwich.ac.th. HIGHER Seminar - A Simple Arithmetic for Fractions with Applications to Classical Physics, Geometric Modelling and Computer Graphics: speaker Professor Ron Goldman, Rice University, Houston, United States. Organised by the Department of Computer Science. University of Science and Technology, Leung Yat Sing Lecture Theatre, Academic Concourse, Monday 4pm-5pm. Tel 2358 7008. Seminar - Some Observations on Traditional Chinese Environmental Problems and Management: speaker Professor Lui Yuen-chong. Organised by the Centre of Urban Planning and Environmental Management. University of Hong Kong, Room 829, 8/F Knowles Building, Wednesday 12.45pm-2pm. Tel 2859 2721. Seminar - Global Inequalities and National Development, Pernicious Postulates, Unsolved Puzzles: speaker Professor Giovanni Arrighi, Johns Hopkins University. organised by the Centre of Asian Studies. University of Hong Kong, the Reading Room, Tang Chi Ngong Building, Friday 4.30pm. Tel 2859 2460. Seminar - Biometric Solutions for e and mCommerce: speaker Mac McGolpin, AsiaWebCo Ltd. Organised by the Telecommunications Research Project. University of Hong Kong, Centre of Asian Studies, Reading Room, Tang Chi Ngong Building, Thursday 12.30pm-2pm. Tel 2859 1919 or e-mail jcgwan@hkucc.hku.hk. Seminar - The Role of Hong Kong Entrepreneurs in the Development of Asian Malls in Canada: speaker Professor David Chuenyan Lai, University of Victoria, Canada. Organised by the Centre of Urban Planning and Environmental Management. University of Hong Kong, Room 820, 8/F Knowles Building, Thursday 6pm-7.15pm. For more details, tel 2859 2721. Seminar - Is Indonesia Breaking Up?: speaker Vaudine England, journalist. Centre of Asian Studies, University of Hong Kong, the Reading Room, Tang Chi Ngong Building, Room G-4. Thursday 4.30pm. Tel 2859 2460. EXHIBITION Beautiful Crystal Specimens from China and Cibachrome Photographs of Minerals: City University Gallery, 4/F Amenities Building, 10am-7pm daily. Ends June 10. LOOKING AHEAD Spring Workshop 2001 - Hong Kong Public Policy and Women: organised by the Centre of Asian Studies and Women's Research Centre. University of Hong Kong, Tang Chi Ngong Building, May 12 9am-1pm. Tel 2859 2460 or e-mail tmyip@hku.hk. Letterland Phonics Education Evening for Parents: speaker Lesley White, Letterland. Organised by ETC Educational Technology Connection (HK) Ltd. June 1. Registration required. Tel 2886 0914 or e-mail info@et.edutechconnect.com.hk. Sources:SOUTH CHINA MORNING POST 05/05/2001 <<...>> <<...>> <<...>> 03May2001 ITALIA: Gaber, tournée in università. Di Pierluigi Panza. Oggi il primo incontro con gli studenti dell'ateneo di via Sarfatti. Poi andrà a Firenze, Torino, Mestre, Napoli e Genova Gaber, tournée in università Il cantautore in Bocconi racconterà il Sessantotto alla generazione del piercing e dei tatuaggi Il signor G. torna a parlare in pubblico a Milano dopo decenni. Oggi, alle 13, Giorgio Gaber incontrerà gli studenti nell'aula Magna della Bocconi. È la prima di una serie di tappe di una singolare tournée, fatta solo di parole, che il cantautore e attore milanese terrà in accordo con le università: il 10 maggio sarà al Teatro Puccini di Firenze, il 16 maggio al Dams di Torino; il 21 maggio al Teatro del Parco di Mestre per gli studenti dell'ateneo Cà Foscari, il 28 maggio al Teatro Diana di Napoli e il 3 giugno, infine, al Palazzo Ducale di Genova. Non che il signor G., negli ultimi anni, non abbia mai parlato: lo aveva fatto anche nella sua ultima apparizione in teatro a Milano, nel febbraio del '98 allo Smeraldo, presentando «Una idiozia conquistata a fatica». Solo che ora, dopo esser tornato a registrare un disco in studio, con quattro pezzi inediti e una decina di arrangiamenti di successi degli ultimi anni, intitolato «La mia generazione ha perso» (quinto in classifica), ha deciso anche di tornare a parlare al di fuori di concerti e spettacoli teatrali. Parlare e basta. E il cantautore, dal naso lungo come un burattino e dalla lingua che enuncia scomode verità, ha deciso di raccontare la sua generazione alla nuova generazione. Insomma, di raccontare il Sessantotto e dintorni ai ragazzi del piercing e dei tatuaggi. Parlare di musica, di letteratura, di società, ma non esplicitamente di politica contemporanea (almeno non è prevista). Gaber ha più volte affermato di non recarsi a votare da anni. E del resto lui, punzecchiatore da sinistra della Sinistra, si trova nella condizione di essere consorte della berlusconiana presidente provinciale Ombretta Colli. La sua, su Berlusconi, l'ha comunque già detta: «Non ho paura di Berlusconi in sé; ho paura di Berlusconi in me». Il 25 gennaio di due anni fa, in occasione del suo sessantesimo compleanno, Gaber dichiarò anche di non amare i giovani: «Sono conciati male, per colpa nostra». Ovvero per «colpa» di una generazione che «non ha saputo dir loro chi sono e cosa devono fare». Una generazione, la sua, che, afferma oggi il signor G., «con generoso slancio utopistico, a volte velleitario e contraddittorio, ha creduto in valori e progetti dei quali ben poco si è realizzato» e, forse per questo, da lui definita perdente. «Ma anche una generazione - aggiunge - che, nonostante tutto rilancia la sua ironia, la sua forza vitale e la sua incrollabile fede laica nelle possibilità di riscatto dell'individuo». Gaber, dunque, rimpiange «le strade, le piazze gremite/ di gente appassionata / sicura di ridare un senso alla propria vita», come scrive in «La razza in estinzione»; una razza di cui, con quella utopia mista a disillusione che lo contraddistingue, cercherà di trasmettere almeno le migliori qualità alla generazione degli universitari d'oggi. Che, quanto a premesse, ha da invidiare alla sua quella vitalità e quella voglia di cambiare il mondo che Gaber ha riconosciuto in un «maestro» come Dario Fo, in un economista cosmopolita come Giovanni Arrighi, in un filosofo come Andrea Madera, in un freak diventato arancione come Andrea Valcarenghi e in tutti quegli intelletuali del Gruppo Gramsci per i quali smise di frequentare Mina e Celentano. Adesso tutti e tre ritornano: il guru da prima serata Adriano Celentano con «125 milioni di caz..te», Mina con la sua voce e i suoi chili, Gaber con l'emozione di sentirsi perdente ma anche, evidentemente, con la voglia di testimoniare qualcosa ai giovani. Solo che lui, il «menestrello dell'era atomica» che fece impazzire cantando «Porta Romana», motivo che i ragazzi ancora intonano senza sapere che sia suo, stupisce di nuovo per la scelta del pulpito dal quale dire la sua: le università e, per prima, la Bocconi. Vabbé che è un ragioniere diplomato al Cattaneo e «sciur dottor» lo sarebbe diventato se non si fosse messo a cantare «La ballata del Cerruti», suo primo grande successo legato a Milano scritto nel '61 con Umberto Simonetta. Ma certo Gaber, 25 anni fa, parlava davanti a 100mila ragazzi al Parco Lambro per il festival di «Re nudo»! Oggi, dopo gli anni passati con Grassi e Strehler al Piccolo Teatro, dopo il successo di «Aspettando Godot» al Carcano con l'amicone Jannacci e dopo le 50 repliche a Milano del Teatro Canzone (che segnò nel '92 il suo ritorno alla musica), lo ritroviamo nella culla dell'alta finanza. Sarà dunque ancora più interessante sentire cosa Gaber avrà da dire a dei ragazzi che amano gli Stati Uniti e che aspirano a diventare i signori del mercato. Lui - l'ha più volte dichiarato - non vede di buon occhio «la crescente globalizzazione che schiaccia l'individuo» e ritiene che «le coscienze vengono annientate dal mercato». Pierluigi Panza. (c) CORRIERE DELLA SERA. Sources:CORRIERE DELLA SERA (ITALIAN LANGUAGE) 03/05/2001 P54 <<...>> <<...>> <<...>> 06Apr2001 ITALIA: GABER L'emozione di sentirsi perdente. «Il 13 maggio mia moglie non è candidata. Posso tornare ad astenermi» «Dice un mio amico: non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me»ANTEPRIMA Parla il cantautore che lancia un disco sulle sconfitte della sua generazione: «Sento il vuoto di una classe che non ha nulla da dire» GABER L'emozione di sentirsi perdente di GAD LERNER La disarmante sincerità di Giorgio Gaber, l'uomo che negli anni Settanta ci fece sobbalzare con la rima fra gelato e proletariato, e che trent'anni dopo torna a produrre un disco per annunciare La mia generazione ha perso, se ne sta rannicchiata in un villino circondato dagli alberghi a una stella delle prostitute latino-americane, nella sua Milano piccolo borghese di sempre, solo un pò più malinconica e arrabbiata, tra Lambrate e Città Studi. Non ce n'è un altro al mondo che ti possa raccontare nello stesso tono partecipe lo Studio Uno di Mina e la new left americana, il clan di Celentano e la scuola di Francoforte: perché Gaber nel Sessantotto andava in Statale a prendere l'Ombretta Colli che studiava il russo e il cinese, però ci andava con la Jaguar e, da trentenne ganassa qual era, si lasciò incantare da quei giovani ribelli indifferenti alla sua automobile e alla sua celebrità televisiva. Nel nuovo disco la sua generazione che ha perso fa rima con le idee del secolo scorso ma anche con la possibilità di raccontarle ai figli senza rimorso. A 62 anni sente «un vuoto totale», intitola l'ultimo canto a La razza in estinzione, rimpiange «le strade, le piazze gremite/ di gente appassionata/ sicura di ridare un senso alla propria vita/ ma ormai son tutte cose del secolo scorso/ la mia generazione ha perso». E allora chiude il cerchio tornando perfino in televisione, ma una volta soltanto, fianco a fianco con il Molleggiato, perché è giusto rendere omaggio alle sue origini che non erano certo quelle di un intellettuale d'élite. Proprio lui, il maestro autodidatta che invano ci ha proposto l'esempio di una serena appartatezza dallo star-system, costringendoci a riempire i teatri se volevamo scrutarne la metamorfosi, e dividerci, e arrabbiarci, e accusarlo di qualunquismo per via degli umori inconfessabili che snidava in noi. Non fosse Gaber, lo liquideremmo come un furbo di tre cotte, vista l'incredibile trasversalità dei personaggi riuniti nel libretto del cd, ciascuno chiamato a commentare una canzone, edita o inedita: da Fausto Bertinotti a Francesco Alberoni; da Luigi Giussani a Antonio Ricci che lo definisce «veramente buono» e «veramente tollerante». La prova? «Non ha ancora strangolato la moglie Ombretta Colli di Forza Italia». Figuriamoci, lui, che non votava più dal 1975, per amore di Ombretta si è trascinato fino al seggio elettorale: «Fortunatamente il 13 maggio non è candidata, posso tornare all'astensione. Come dice il mio amico Giampiero Alloisio, io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me». Invece Gaber non è affatto un furbo. Perché se è vero che don Giussani ha citato lungamente la canzone L'appartenenza negli esercizi spirituali di Comunione e liberazione («Sarei certo di cambiare la mia vita/ se potessi cominciare/ a dire noi»), non per questo lui rinuncia all'invettiva: «e vedo anche una Chiesa/ che incalza più che mai/ io vorrei che sprofondasse/ con tutti i Papi e i Giubilei». Seduto sul divano con l'eterno girocollo blu e le eterne Clarks ai piedi, è il primo a stupirsi: «Strana gente, gente viva questi ciellini. Sono anche venuti qui a casa per discutere con me dopo lo spettacolo, una volta lo facevano i giovani di sinistra». La sinistra che continuamente l'ha attratto e deluso («non si sa se la fortuna sia di destra/ la sfiga è sempre di sinistra») non è certo quella di D'Alema e Veltroni: «Nel Sessantotto loro erano la Fgci, erano i nemici». La rivolta libertaria, la libertà come partecipazione, già col movimento del '77 per Gaber ripiegava nella pretesa deludente di soddisfare bisogni mercificati, e oggi nei centri sociali esprime un antagonismo che è solo rabbia. Per questo a teatro l'ha fustigata e sfottuta con amore, l'ha costretta a guardarsi dentro, rimettendo - come le sue canzoni - la persona al primo posto. «Una volta ho domandato a Sofri: ma tu ci credevi veramente alla rivoluzione? E lui: forse non ce lo siamo mai chiesti, o avevamo paura di chiedercelo». Così, ogni estate, in Toscana, si mette lì con l'amico pittore Sandro Luporini a scrivere canzoni e a misurare la miseria dei luoghi comuni e delle mode culturali. «Sì, quella generazione ha avuto la forza di coinvolgere uno come me, il chitarrista di Celentano divenuto cantante solo perché lui arrivava in ritardo e l'orchestra aveva bisogno di una voce con cui provare». Intellettuali come Nanni Ricordi e Dario Fo mi hanno fatto venire la voglia di pensare, di trasformarmi. Mi hanno fatto conoscere un economista cosmopolita come Giovanni Arrighi, un militante filosofo come Romano Madera, un vero freak come Andrea Valcarenghi. Ecco, sono i talenti di allora quelli che hanno perso insieme a me». È il Sessantotto dei Fischer e dei Cohn-Bendit accusati di terrorismo e pedofilia, è il Sessantanove di Sofri finito dietro le sbarre di una prigione. «Ora sento il grande vuoto, vedo una classe di intellettuali che non ha più niente da dire dopo decenni di sviluppo senza progresso. Hai voglia a ripetere che bisogna ascoltare i figli, parlargli: ma cosa cazzo gli diciamo?». Il prodotto della metamorfosi-Gaber è un uomo di teatro: «Se Mina è uno strumento meraviglioso, un'ugola straordinaria, io sono un attore che canta amplificando l'emozione con la musica». Una mutazione che proprio da Mina incominciò, per giungere ai concerti di autofinanziamento militante e in seguito all'encomiabile sforzo di conservare, se non altro, il buon gusto. «Fu proprio in seguito a una lunga tournée teatrale in cui facevo da spalla a Mina che nel 1970 decisi di scomparire dalla televisione e dal mercato discografico. Ho sentito il rapporto fisico col pubblico, la sfida di inventare canzoni che la gente in teatro ascolta per la prima volta e subito devono lasciare il segno». In quei teatri si sono consumate molte crisi esistenziali della militanza. La demolizione del conformismo di sinistra, del politically correct, della solidarietà pelosa. Se uno sul palco, con voce grave, ti sfotte cantando che il collant è di sinistra mentre il reggicalze è di destra, e che l'ideologia è facile a sciogliersi come uno shampoo, ti viene il dubbio che anche il potere dei più buoni sia solo una grande ipocrisia. Tanto più se te lo dice senza cinismo, col tormento di chi partecipa delle tue passioni. E così pure tu ti senti obeso, come nella canzone ancora inedita, a furia di mangiare idee, opinioni, soldi, sentimenti, fino a «un gonfiarsi disumano». Se poi grida che i gay «han tutte le ragioni/ ma io non riesco a tollerare/ le loro esibizioni» magari ti scandalizzi, ma senti che è turbato anche lui. Gaber lo ammette: «A un certo punto io mi sono innamorato di quella razza lì, degli intellettuali. Ho smesso di frequentare Mina e Celentano per frequentare, al posto loro, il Gruppo Gramsci, finché s'è sciolto come avrebbe fatto tre anni dopo Lotta continua. Mi hanno fatto orrore gli autonomi, mi ha lasciato indifferente la svolta mistica arancione del fondatore di Re Nudo, Andrea Valcarenghi, che pure resta un amico. Ricordo Dalia ancora bambina che un giorno mi chiama, "papà, c'è Andrea al telefono, ma deve essere impazzito perché dice di chiamarsi Majid". Ecco, con tutto questo, io mi sento ancor oggi un privilegiato per il fatto di essere rimasto fuori dall'orgia televisiva». Ha preferito costruirsi un popolo di seguaci, accomunato da una sconfitta da assaporare ciascuno a casa propria, magari ascoltando un cd. Il Cd di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, «La mia generazione ha perso», uscirà il 14 aprile per la CGD. (c) CORRIERE DELLA SERA. Sources:CORRIERE DELLA SERA (ITALIAN LANGUAGE) 06/04/2001 P35 <<...>> <<...>> <<...>> 11Apr2000 ESPAÑA: Agenda Informativa de Europa Press del día 11 de abril (y 2). MADRID, 11 de Abril (Europa Press) Temas más importantes que configuran la AGENDA de actos e informaciones previstas para hoy por EUROPA PRESS, agrupadas en las secciones de "Cultura y Sociedad" y "Efemérides" CULTURA Y SOCIEDAD - Miguel Angel Cortés inaugura en México una exposición sobre Luis Buñuel. - 9.15 horas: Annie Brooking estará en el Primer Congreso Internacional de Gestión del Conocimiento, en el Meliá Avenida de América. A las 18.30 estará Leif Edvinson. - 9.30 horas: Dentro del foro "El futuro habla español", intervienen Vítor García de la concha. A las 11.00 lo hará Fernando Rodriguez Lafuente y, a las 12.00, Abel Matutes. En la Casa de América. - 9.30 horas: Enrique Castellón inaugura los "Encuentros sobre Vivienda y Consumo", en el Ministerio de Sanidad y Consumo. A las 10.00 intervendrá Fernando Nasarre. - 10.00 horas: Presentación del estudio "Diez años de comercio exterior del libro en España", en Cea Bermúdez, 44. - 11.30 horas: Rueda de prensa de Carlos Muñoz Repiso, para presentar la nueva campaña divulgativa de la Dirección General de Tráfico, en Josefa Valcárcel, 28. - 11.30 horas: Presentación de la película "Pásate a la pasta" de Antonello Dedo, con la presencia de los actores Claudia Gerini, Ana Risueño y Pere Ponce, en los Cines Princesa de Madrid. - 11.30 horas: Rueda de prensa para explicar las consecuencias del expediente de oficio abierto por la Comisión Europea por las deficiencias en la red de ZEPAs. También se presentará el libro de las IBAs Europeas, elaborado pro BirdLife, en Melquiades Biencinto, 34. - 11.30 horas: Cinco monjes tibetanos, enviados por el Dalai Lama, informan en rueda de prensa, de las actividades que van a realizar en Navarra, en Río Salado, 5. Pamplona. - 11.45 horas: Presentación del código de buenas prácticas ambientales municipales, en Cuesta de Santo Domingo, 5-7. - 12.00 horas: Presentación de la ópera "La sonámbula", en el Teatro Real. - 12.30 horas: Rueda de prensa con motivo de la rescisión del contrato del doctor Vicente Carreño realizado por la Fundación Jiménez Díaz y sus repercusiones en asistencia e investigación en Hepatología, en Guzmán el Bueno, 72. - 12.30 horas: Rueda de prensa de Jorge Loor, portavoz de la Coordinadora de Movimientos Sociales de Ecuador, en Montesquinza, 41. - 13.00 horas: Presentación de la exposición "Construir desde el interior. Un viaje imaginario a través de la poesía de los espacios construidos", en la Arquería de los Nuevos Ministerios. Será inaugurada a las 20.00 horas. - 13.00 horas: Rueda de prensa de la exposición sobre la vida y la obra de María Zambrano, en el Cículo de Bellas Artes. A las 2'0.00 tendrá lugar una mesa redonda sobre el mismo tema. - 13.00 horas: Presentación de la exposición "El enigma de lo cotidiano". A las 19.30 se desarrollará una mesa redonda y, a las 20.30, tendrá lugar la inauguración. En la Casa de América. - 14.00 horas: Presentación de la nueva colección "Planeta Singular", en el Restaurante Lhardy. - 19.00 horas: Debate dentro del Foro Científico: ?Contaminación Medio Ambiente?. Respuestas de la Química, en Príncipe de Vergara, 140. - 19.30 horas: Conferencia de Antonio Lamena sobre "Enclave Urbano del Museo del Ejército", en Gran Vía, 13. - 19.30 horas: Presentación del libro ganador del Premio Primavera de Novela 2000, "Amphitryon", de Ignacio Padilla, en el Círculo de Bellas Artes. Actuará Angels Gonyalons y su compañía. A las 12.30 el autor dará una rueda de prensa. - 19.30 horas: Expertos en nutrición y psicología debaten en el Palacio Euskalduna de Bilbao sobre la anorexia. - 19.30 horas: Debate de Almudena Grandes y Joaquín Leguina dentro del ciclo "Literatura y compromiso social", en Azcona, 53. - 19.30 horas: Inauguración de la exposición Bartolomé Sureda (1769-1851: Arte e industria en la Ilustración tardía, en el Museo Municipal de Madrid. Fuencarral, 78. - 19.30 horas: Mesa redonda sobre "Literatura Ecuatoriana" con Eduardo Becerra, Javier Vásconez y Mayra Estévez, en la Casa de América. - 19.30 horas: Conferencias dentro del seminario sobre "Pensar la Religión", en la Fundación Juan March, Castelló, 77. - 19.30 horas: Concierto titulado "Modus Novus", dirigido por José de Eusebio, en el Auditorio Nacional de Música. - 19.45 horas: Romay Beccaría asiste a la presentación del libro "El arco románico en el Camino de Santiago", y recital de arpa de música medieval a cargo de María Rosa Calvo-Manzano, en Casado del Alisal, 8. - 20.00 horas: Conferencia de Paulino Castañedo Delgado sobre "América y la ilustración europea", en Alcalá, 15. - 20.00 horas: Ludolfo Paramio y Felipe Ruíz Martín presentan la obra de Giovanni Arrighi "El largo siglo XX", en Preciados, 28. - 20.00 horas: Presentación del Año Jubilar Lebaniego, 2000-2001, por el consejero de Cultura de Cantabria, José Antonio Cagigas, en la Casa de Cantabria, Pío Baroja s/n. - 20.00 horas: Presentación del libro de Manuel Hidalgo "Días de agosto", en O'Donnell, 10. - 20.00 horas: Conferencia de Jesús Torbado, titulada "Tabaco, sabor a tolerancia", en Almirante, 12. - 20.00 horas: Inauguración de la exposición "Partituras" de Eduardo Bonati y concierto del compositor Adolfo Núñez, en Augusto Figueroa, 99. - 20.00 horas: Presentación de la nueva revista de naturaleza, denominada "Scenes of The World", en Alcalá, 141. - 20.30 horas: Dentro del X Festival de Arte Sacro de la Comunidad de Madrid, se presenta la ópera a capella titulada "La trinidad", a cargo del Coro Filarmónico de Sochi, en el Círculo de Bellas Artes. - 20.30 horas: La Fundación César Manrique presenta el dictamen jurídico "Revisión del PIOT: cuestiones formales y de fondo", de José Suay, en Lanzarote. - 21.00 horas: Acto de la ONCE con motivo de la celebración de las sextas elecciones internas de la Organización, en el Paseo de la Habana, 208. - Nacha Guevara actúa en el Círculo de Bellas Artes de Madrid. - María Creuza actúa en Galileo Galilei. - El Cometa Errante actúa en la sala Clamores. EFEMERIDES - El historiador Raymond Carr, cumple 81 años. - Álex Corretja, tenista, cumple 26 años. - José María Ruiz Mateos, cumple 69 años. - La cantante Lisa Stansfield, cumple 34 años. - Juan Carlos Arteche, ex jugador del Atlético de Madrid, cumple 43 años. - Jesús Seba, futbolista, cumple 26 años. (c) Europa Press 2000. Sources:EUROPA PRESS 11/04/2000 <<...>> <<...>> <<...>> 06Feb2000 BRASIL: Ricardo Musse - O reformismo ontológico do proletariado. São Paulo, Domingo, 06 de Fevereiro de 2000 Em "Marxismo sem Utopia", Jacob Gorender revisa as teses do pensador alemão à luz de questões atuais especial para a Folha Sob muitos aspectos, "Marxismo sem Utopia" é um livro notável. Diferentemente da tradição do marxismo local, não busca adaptar as teorias de Marx e de seus seguidores à especificidade brasileira nem destacar as singularidades de nossa formação social (assunto abordado por Gorender em "O Escravismo Colonial"). Propõe-se a atualizar nada mais nada menos que o próprio marxismo. Sintoma de maturidade intelectual (do autor e do marxismo brasileiro), mas também de lucidez diante dos impasses da prática e da teoria neste fim de século. A flexibilidade, implícita no projeto de revisar as teses marxistas levando em conta a atual situação do mundo, destoa do disseminado dogmatismo de teóricos e militantes de esquerda e não deixa de ser inesperada (apesar de sua trajetória heterodoxa) em um antigo membro do Comitê Central do PCB. Tampouco é comum - numa época de renegações feitas em função de expectativas de curto prazo-a atitude de elaborar propostas que assumidamente só poderão ser vingadas pelas gerações futuras. Por fim, o leitor haverá de se surpreender com a riqueza enciclopédica do livro. Encontram-se lá sumariados, com clareza, didatismo e uma espantosa capacidade de destacar o essencial, as discussões contemporâneas sobre temas como a história do capitalismo no século 20, da tradição marxista e do "socialismo real"; a dita globalização e tudo o que afeta a atualidade e o futuro do mundo do trabalho; a situação presente das classes, dos partidos e do Estado, bem como suas mútuas relações; as pertinências das teorias de Marx sobre a extração da mais-valia, da queda tendencial da taxa média de lucro e das crises de superprodução; a questão da transição e das características da sociedade socialista etc. Ciência e utopia A construção enciclopédica do livro nos esclarece sobre a variante do marxismo retomada por Gorender. A organização do legado de Marx como um sistema aberto, atento às discussões internas nos diversos campos do saber, foi a estratégia utilizada por Friedrich Engels para atualizar o materialismo histórico após a morte de Marx. Nessa versão, denominada "socialismo científico", ascendeu ao primeiro plano a dicotomia ciência/utopia presente já no título e retomada ao longo do livro. No que tange ao método, Gorender está mais próximo de Eduard Bernstein, um discípulo de Engels que, levando ao pé da letra a associação entre marxismo e ciência, não hesitou em adotar como fio a tese de que "Marx desviou-se da disciplina científica e cedeu a propensões utópicas". A proximidade entre Bernstein e Gorender, no entanto, é puramente formal. Uma vez que a convergência entre teoria e prática, método e política é ainda apenas um ideal, Gorender pôde retomar o mote a partir do qual Bernstein procedeu à revisão do marxismo e, ao mesmo tempo, rejeitar peremptoriamente o reformismo social-democrata preconizado por ele. Mas nem por isso está imune, por exemplo, às críticas metodológicas que Lukács endereçou a Eduard Bernstein no livro "História e Consciência de Classe", particularmente à ilusão de que a simples seleção dos fatos relevantes já não contenha uma interpretação. Para Jacob Gorender, a fonte dos equívocos de Marx e do marxismo, dado fundamental que o impele a revisar essa tradição, seria a constatação de que, ao contrário do que sempre se supôs, "o proletariado é ontologicamente reformista". Para corroborar o que considera uma evidência, recorre ao artigo "Século Marxista, Século Americano", do italiano Giovanni Arrighi (em "A Ilusão do Desenvolvimento", ed. Vozes), que destaca a cisão do marxismo em movimentos reformistas no centro e revolucionários na periferia do capitalismo. Imitação do privilégio Entretanto o que preocupa Arrighi não é uma definição sobre o caráter ontológico da classe operária, mas sobretudo o fato de que a desigualdade do sistema interestatal (entre os países do núcleo orgânico e os demais) parece ter determinado a ação do proletariado mais fortemente que o objetivo socialista. Isto é, a classe operária das nações do centro esforça-se por manter a posição privilegiada de seu país, enquanto os trabalhadores da periferia anteviram (equivocadamente) na revolução um meio de alcançar o padrão dos países centrais. Diante desse dilema não basta propor a substituição da força social preponderante no processo revolucionário, como fez Gorender ao apostar suas fichas nos assalariados intelectuais. A existência de um sistema interestatal hierarquicamente estruturado e imune a alterações tornou-se uma questão incontornável para quem quiser propor modificações no modo de organizar o mundo, sejam marxistas ou não. Marxismo sem Utopia 288 págs., R$ 29,90 de Jacob Gorender. Ed. Ática (r. Barão de Iguape, 110, CEP 01507-900, SP, tel. 0/xx/11/ 3346-3318). Ricardo Musse é doutor em filosofia pela USP e membro da comissão executiva da revista "praga" (Hucitec). Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da Agência Folha. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 2000, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 06/02/2000 <<...>> <<...>> <<...>> 01Jan2000 GUATEMALA: Guatemala in the global system. By Chase-Dunn, Christopher. With the signing of peace accords in 1996 ending Latin America's longest and bloodiest civil war, Guatemala opened a new chapter in its history, one in which a new and inclusive political community might finally emerge. For scholars, such an era of potential societal normalization and democratization is a propitious opportunity to reconsider how a more inclusive and multiethnic national community could emerge and how Guatemalans might respond to the changing forces of economic, ideological, and geopolitical globalization. The end of the Cold War, powerful global market forces, changing foreign policies in the developed countries, the emergence of stronger multilateral agencies at the world level, and the current hegemony of neoclassical policy prescriptions emanating from powerful global agencies-all these factors pose significant challenges as well as possible opportunities for Guatemalan democratization and development. Guatemala is the largest country in Central America and was the last to negotiate an end to civil war. In many ways, Guatemala's social problems are representative of those in many other parts of the Third World. Poverty and discord among ethnically different populations appear in many developing countries. Guatemala is not among the world's poorest countries; on the basis of gross national product per capita, it falls into the category the World Bank terms "low-to middle-income countries." But among countries in this category, Guatemala has one of the highest economic disparities between rich and poor. It has valuable national resources but also unusually high un-and underemployment. The tax rate relative to the gross domestic product is very low. In this context, the peace process created an important opening. Formerly excluded groups have ostensibly been invited to participate in legal and institutional processes for formulating policies of development and democratization. The prospect of a new, multiethnic nation that recognizes the cultural, political, and economic rights of its poorest and least powerful citizens is more of a real possibility now than it has been for many decades. Guatemala's accord on Identity and Rights of Indigenous Peoples, one of the peace accords, for example, is a conceptual breakthrough that many other countries should emulate. Comparing the social changes in developing countries of Asia, Africa, and Latin America is important for understanding particular countries such as Guatemala, as well as for comprehending the global system as a whole. The situation of a developing country emerging from a long period of strife suggests comparisons with other specific countries-El Salvador and Nicaragua-but also South Africa and the countries of the Middle East. These cases of struggle and partial reconciliation need to be compared and placed in the historical context of decolonization and national liberation movements (see Arnson 1999). Along similar lines, democratization and development policies in Guatemala cannot be adequately understood without considering the worldwide waves of democratization (Markoff 1996), as well as important changes in the world economy. The trajectory of the East Asian economies raises the question of whether development models that have worked there would be entirely appropriate for Guatemala. It also suggests possibilities for eventual Guatemalan involvement in Pacific Rim linkages. Guatemalan economic, political, and cultural change has long been importantly affected by the actions of powerful states and firms in the developed countries, especially the United States. The actions of U.S.-based firms and political-military interventions at important historical points have had a major impact on Guatemalan society, as well as on other Central American countries. The demise of the Soviet Union and the emergence of global patterns of economic restructuring have produced a hegemonic consensus regarding the necessity of producing for the global market and courting foreign investment. This ideological perspective has been reinforced by the policies of powerful multilateral agencies, such as the World Bank and the International Monetary Fund (IMF). But economic and ideological globalization have also been accompanied by a long-term trend toward greater international and transnational political organization and integration and the slow emergence of global governance (Murphy 1994). The United Nations has played an important role in the Guatemalan peace process. International organizations of indigenous peoples, labor unions, women's movements, and movements for environmental protection have begun to play important roles in the politics of every country. These movements are part of a process of political and social globalization that is emerging in tandem with, and in response to, economic and cultural globalization. The problem of Guatemalan development in context thus requires that we understand the current period in long-term perspective and in wide geographical circumstance, both nationally and globally. The possible results for Guatemala could be not only part of, but potentially active in shaping, the future of the larger world society. How the relationship between the developed and the developing countries is worked out in the next decades will be a major determinant of the nature of the twenty-first century world-system. Guatemala is a node for our understanding of these emerging structures. The theoretical perspective that is best suited to such a temporally deep and spatially broad analysis is the world-systems perspective (Shannon 1996). The world-systems approach looks at human institutions over long periods of time and employs the spatial scale necessary for comprehending whole interaction systems. It is neither Eurocentric nor core-centric, at least in principle. The main idea is simple: human beings on Earth have been interacting with one another in important ways over broad expanses of space since the emergence of oceangoing transportation in the fifteenth century. Before the Americas were incorporated into the Afroeurasian system, many local and regional world-systems (intersocietal networks) held sway (see Blanton et al. 1992). These were inserted into the expanding European-centered system largely by force, and the surviving populations of indigenous Americans were mobilized to supply labor for a colonial economy that was repeatedly reorganized according to the changing geopolitical and economic forces emanating from the European and, later, North American core societies. This whole process can be understood structurally as a stratification system composed of economically and politically dominant core societies (themselves in competition with one another) and dependent peripheral and semiperipheral regions. Some of these have succeeded in improving their positions in the larger core-periphery hierarchy, while most have simply maintained their relative positions. This structural perspective on world history allows us to analyze the cyclical features of social change and the long-term trends of development in historical and comparative perspective. We can see the development of the modern world-system as driven primarily by capitalist accumulation and geopolitics, in which businesses and states compete with one another for power and wealth. Competition among states and capital is conditioned by the dynamics of struggle among classes and by the resistance of peripheral and semiperipheral peoples to domination from the core. In the modern world-system, the semiperiphery is composed of large and powerful countries in the Third World (for example, Mexico, India, Brazil, China) and smaller countries that have reached intermediate levels of economic development (such as the East Asian newly industrialized countries). It is impossible to understand the history of social change in the system as a whole without taking into account both the strategies of the winners and the strategies and organizational actions of those who have resisted domination and exploitation. It is also difficult to understand how innovative social change emerges without a concept of the world-system as a whole. As with most earlier regional intersocietal systems, new organization forms that transform institutions and that lead to upward mobility most often emerge from societies in semiperipheral locations. Thus, all the countries that became hegemonic core states in the modern system had formerly been semiperipheral. This is a continuation of a long-term pattern of social evolution that has been called "semiperipheral development" (Chase-Dunn and Hall 1997). Earlier semiperipheral conquest states and semiperipheral capitalist city-states acted as the main agents of empire formation and commercialization for millennia. The pattern includes the semiperipheral communist states and probably will also comprise future organizational innovations in semiperipheral countries that may transform today's global system. The world-systems approach requires that we think structurally. We must be able to abstract from the particularities of uneven development the structural continuities. Today, the core-periphery hierarchy remains, though some countries have moved up or down (see Chase-Dunn and Grimes 1995). The interstate system also remains, though the internationalization of capital has perhaps further constrained states' ability to structure national economies. States have always been subjected to larger geopolitical and economic forces in the world-system, and, as is still the case, some have been more successful at exploiting opportunities and protecting themselves from liabilities than others. In this perspective, many of the phenomena that have been called globalization correspond to recently expanded international trade, financial flows, and foreign investment by transnational corporations and banks. The globalization discourse generally assumes that until recently there were separate national societies and economies, and that these have now been superseded by an expansion of international integration driven by information and transportation technologies. Rather than a wholly unique and new phenomenon, however, globalization is primarily international economic integration, and as such it is a feature of the world-system that has been increasing for centuries (Chase-Dunn et al. 1999). The Great Chartered Companies of the seventeenth century were already playing an important role in shaping the development of world regions. Certainly, the transnational corporations of the present are much more important players, but the point is that "foreign investment" is not an institution that has become important only since 1970 (or since World War II). Giovanni Arrighi (1994) has shown that finance capital has been an important component of the commanding heights of the world-system since the fourteenth century. The current floods and ebbs of world money are typical of the late phase of very long "systemic cycles of accumulation." TYPES OF GLOBALIZATION The discourse about globalization has used the term to mean several different things. For some writers, globalization means a new stage of global capitalism that is qualitatively different from an earlier stage that recently ended, though how it allegedly differs varies from author to author (Chase-Dunn 1998, chaps. 3, 4). This essay will distinguish between two main meanings of the term globalization: international integration and the political-ideological discourse of global competitiveness. Globalization as international integration needs to be further denoted as international economic integration, international political integration, and international cultural and communicative integration. Of course, each of these subtypes has many aspects; but the point is that international integration relates to the extent and intensity of links in a set of global networks of interaction. We can determine empirically how economically integrated were the societies on Earth in the late nineteenth century and how "economically globalized" the world economic network is now (Chase-Dunn et al. 1999). This question is separable from people's sense of their linkages with one another. Economic globalization is both a long-term trend and a cyclical phenomenon. If we calculate the ratio of international investments to investments within countries, the world economy had nearly as high a level of "investment globalization" in 1910 as it did in 1990 (Bairoch 1996). Similarly, if we calculate the ratio of total world international exports to the sum of all the country GDPs, there was a very high peak of "trade globalization" just before World War I, with a rapid decrease thereafter until 1950 and then a slow rise to the current very high level of trade globalization. Globalization as international economic integration therefore should be understood as part of a long-term set of processes that have characterized the world-system for centuries and, arguably, continue to describe the system in the current period of global capitalism (Chase-Dunn 1998, xiv-xvi). The cyclical trend of international economic integration needs to be understood in the context of those other cycles and trends. They imply that future struggles for economic justice and democracy need to learn from earlier struggles in the world-system context. While some populists have suggested that progressive movements should again employ the tools of economic nationalism to resist the powers of the "global princes of capital" (Moore 1996; Mander and Goldsmith 1996), others contend that political globalization of popular movements will be required to create a democratic and collectively rational global commonwealth (Robinson 1998-99). THE GLOBALIZATION PROJECT The term globalization has been used in a different way to refer to "the globalization project"-the abandonment of Keynesian models of national development and a new emphasis on deregulation and opening national commodity and financial markets to foreign trade and investment (McMichael 1996). This use points to the ideological aspects of the most recent wave of international economic integration. The term I prefer for this turn in global discourse is neoliberalism. The worldwide decline of the political left may have predated the revolutions of 1989 and the demise of the Soviet Union, but it was certainly also accelerated by these events. The structural basis of the rise of the globalization project is the new level of integration reached by the global capitalist class. The internationalization of capital has long been an important part of the trend toward economic globalization, and many claims to represent the general interests of business have been made-indeed, by every modern hegemon. But the real international integration of interests of the capitalists in all parts of the system has reached a level greater than ever before. This is the part of the model of a global stage of capitalism that must be taken most seriously, though it can certainly be overdone. The world-system has now reached a point at which both the old interstate system, based on separate national capitalist classes, and new institutions representing the global interests of capitalists simultaneously exist and wield power. In this light, each country can be seen to have an important ruling class fraction that is allied with the transnational capitalist class. Neoliberalism began as the Reagan-Thatcher attack on the welfare state and labor unions. It evolved into the IMF's structural adjustment policies and the triumphalism of global business after the demise of the Soviet Union. In U.S. foreign policy, it has found expression in a new emphasis on "democracy promotion." Rather than propping up military dictatorships in Latin America, the emphasis has shifted toward coordinated action between the CIA and the U.S. National Endowment for Democracy to promote electoral institutions there and in other semiperipheral and peripheral regions (Robinson 1996). Robinson points out that the kind of "low-intensity democracy" that is promoted is really best understood as "polyarchy," a regime form in which elites orchestrate a process of electoral competition and governance that legitimates state power and undercuts more radical political alternatives that might threaten their ability to maintain their wealth and power by exploiting workers and peasants. Robinson convincingly argues that polyarchy and democracy promotion are the political forms most congruent with a globalized and neoliberal world economy in which capital is given free rein to generate accumulation wherever profits are greatest. Globalized capital, moreover, has been explicitly constructed to out-maneuver the institutional contraints that had emerged from labor unions, socialist parties, and welfare states, as well as economic nationalism and socialist institutions in the periphery and semiperiphery. Certainly, new incarnations of those older strategies will emerge in the future as marginalized, dominated, and exploited peoples learn to resist the new globalized forms of control. Indeed, some older ideas that may have been ahead of their time may now come into their own. For example, labor internationalism had become a tired phrase used as a fig leaf for Soviet imperialism; but a new wave of labor internationalism will probably be the only rational response to the latest wave of the globalization of capital. The women's movement and the environmental movement have already developed new transnational organizational structures, and such an approach is also emerging among the indigenous peoples of the world (Wilmer 1993). These new transnational "antisystemic movements" (Amin et al. 1982; Arrighi et al. 1989) can be described as globalization from below. Alliances among different groups can organize together across borders based on their common desire to confront neoliberalism and global capital. Thus global capital creates, for the first time, the real historical possibility for an Earthwide antisystemic political alliance that can build a more humane and sustainable world society. THE SPIRAL OF CAPITALISM AND SOCIALISM The interaction between expansive commodification and resistance movements can be denoted as "the spiral of capitalism and socialism" (Boswell and Chase-Dunn 2000). The spiral metaphor describes how capitalism and socialism feed each other's growth and organizational forms. Capitalism spurs socialist responses by exploiting and dominating peoples, and socialism spurs capitalism to expand its scale of production and market integration and to revolutionize technology. The historical development of the communist states can be explained as part of a long-term, spiraling interaction between expanding capitalism and socialist counterresponses. The Russian and Chinese revolutions were socialist movements in the semiperiphery that intended to transform the global logic of capitalism but ended up using socialist ideology to mobilize industrialization for the purpose of catching up with core capitalism. Defined broadly, socialist movements are those political and organizational means by which people try to protect themselves from market forces, exploitation, and domination, and to build more cooperative institutions. The several industrial revolutions, by which capitalism has restructured production and reorganized labor, have stimulated a series of political organizations and institutions created by workers to protect their livelihoods. This happened differently under different political and economic conditions in different parts of the world-system. Skilled workers created guilds and craft unions. Less-skilled workers created industrial unions. Sometimes these coalesced into labor parties that played important roles in supporting the development of political democracies, mass education, and welfare states (Rueschemeyer et al. 1992). In other regions, workers and peasants were less politically successful, but managed at least to protect access to rural areas or subsistence plots for a fallback or hedge against the insecurities of employment in capitalist enterprises. To some extent, the burgeoning contemporary "informal sector" in both core and peripheral societies provides such a fallback. The mixed success of workers' organizations also had an impact on the further development of capitalism. In some places, workers or communities successfully secured higher wages or protected the environment in ways that raised the costs of production for capital. When this happened, either capitalists displaced workers by automating them out of jobs, or capital migrated to places where fewer constraints allowed cheaper production. The process of capital flight has been an important force behind the uneven development of capitalism and the spreading scale of market integration for centuries, as capitalism has grown ever more international and the size of firms has increased. International markets became more and more important to successful capitalist competition. Fordism, the employment of large numbers of easily organizable workers in centralized production locations, was partially supplanted by "flexible accumulation" (small firms producing small, customized products) and global sourcing (the use of substitutable components from broadly dispersed competing producers). These new production strategies made traditional labor organizing approaches much less viable. Socialists were able to gain state power in certain semiperipheral states and to create political mechanisms for protection against competition with core capital. This was not a wholly new phenomenon; capitalist semiperipheral states had done similar things. But the communist states claimed a fundamentally oppositional ideology, in which socialism was allegedly a superior system that would eventually replace capitalism. The content of the ideology may make some difference for the internal organization of states and parties, but every contender must be able to legitimate itself in the eyes and hearts of its cadre. The claim to represent a qualitatively different and superior socioeconomic system is not evidence that the communist states were ever able to become structurally autonomous from world capitalism. The communist states severely restricted the access of core capitalist firms to their internal markets and raw materials, and this constraint on the mobility of capital was an important force behind the post-World War II upsurge in the spatial scale of market integration and a new revolution of technology. In certain areas, capitalism was driven to further revolutionize technology or to improve living conditions for workers and peasants because of the demonstration effect of propinquity to a communist state. U.S. support for state-led industrialization in Japan and Korea (in contrast to U.S. policy in Latin America) is only understandable as a geopolitical response to the Chinese revolution. The existence of "two superpowers"-one capitalist and one communist-in the period since World War II provided a fertile context for the success of international liberalism within the "capitalist" bloc. This was the political-military basis of the rapid growth of transnational corporations and the latest round of "time-space compression" made possible by radically lowered transportation and communication costs (Harvey 1989). This technological revolution has once again restructured the international division of labor and created a new regime of labor regulation called "flexible accumulation." The communist states' long reintegration into the capitalist world-system took place because they could not compete with the new form of capitalist regulation. Thus capitalism spurs socialism, which spurs capitalism, which spurs socialism again in a wheel that turns and turns while getting larger. As trends in the last two decades have shown, austerity regimes, deregulation, and marketization in nearly all the communist states occurred during the same period as similar phenomena in noncommunist states. The synchronicity and broad similarities between Reagan-Thatcher deregulation and attacks on the welfare state, austerity socialism in most of the rest of the world, and increasing pressures for marketization in the Soviet Union and China are all related to the B-phase downturn of the Kondratieff wave, as were the moves toward austerity and privatization in most semiperipheral and peripheral states.1 The trend toward privatization, deregulation, and market-based solutions among parties of the left in almost every country has been thoroughly documented by Lipset (1991). Nearly all socialists with access to political power have abandoned the idea of doing anything more than buffing off the rough edges of capitalism. The pressures of a stagnating world economy may affect national policies differently from country to country, but the ability of any single national society to construct collective rationality is limited by its interaction with the larger system. The most recent expansion of capitalist integration, termed "globalization of the economy," has made autarchic national economic planning seem anachronistic. Yet political reactions against economic globalization are now under way in the form of revived ex-communist parties, economic nationalism, and a growing coalition of popular forces that are critiquing the ideological hegemony of neoliberalism (see Mander and Goldsmith 1996). IMPLICATIONS FOR GUATEMALA From the ground in Guatemala, it must appear that most of the global view as described above is a dream of someone who lives on the moon. The enormous problems of everyday life for the vast majority of Guatemalans and the hectic pace of political events in the struggle to implement the peace accords make it hard to consider the broad sweep of history or the possibilities for constructing a more egalitarian and sustainable world-system. Nevertheless, a historical understanding of the dynamics of global capitalist development is necessary to comprehend current developments and future possibilities. What can we expect of the world-system in the next 50 years that will be relevant to Guatemala? Having been in in a K-wave downswing (B-phase) since the late 1960s, the world economy is now entering an upswing, or A-phase, in which relative rates of economic growth will generally be higher. The fiscal pressures on states will ease; labor will be in demand. The possibilities for mobilizing workers and peasants to demand higher wages and better working conditions should be greater than heretofore because firms and states will be more willing to make compromises to keep business running smoothly. There is also a downside to this trend. The rate of ecological degradation will increase as more resources are used in production. Late in K-wave upswings, when states have abundant resources, is the point when wars occur among core states (Goldstein 1988). If the economic hegemony of the United States continues to decline in comparision to competing core powers (Germany, Japan, China), the world will enter a dangerous window of vulnerability to core warfare in the 2020s (Chase-Dunn and Podobnik 1999). Catastrophic environmental disaster could be another possibility. These portents should concern progressive movements everywhere. The slow emergence of a world state will create the possibility for the democratization of global political institutions. Popular movements could act to block global state formation, but they might alternatively struggle to build democratic and collective rationality into the new global institutions. The hypothesis of semiperipheral development suggests that the most transformative institutional innovations and the most powerful challenges to capitalism will come from semi-peripheral regions in the world-system. Mexico is the most obvious candidate that has direct relevance for the Guatemalan situation. This said, a country such as Guatemala, with its human and natural resources, could also be a fertile ground for transformational action, especially in an age of global politics. In many ways, the smaller countries have a greater interest in the unexplored terrain of "globalization from below."2 Most recent interpretations of Central American history paint a picture of each country with its own complicated and tumultuous experience, leading by different paths to the same happy result: democracy (for example, Paige 1997). A world-systems perspective produces a different portrait. The Central American countries have all been repeatedly restructured by world market forces and geopolitics. The landed colonial patricians were displaced by the agroexporters (who ruled in alliance with the military), and these, in turn, have been partially supplanted by a new transnational elite of neoliberals who seek to link the national economies more tightly with core capital and global markets. It is fascinating to compare the nineteenth-century liberal ideology and policies of the Central American agroexporting elites (science, reason, privatization of communal resources) with more recent neoliberal ideology and policies-competitiveness, fiscal austerity, deregulation, and privatization. Both liberalism and neoliberalism in Central America were and are combinations of imported ideas and local adaptations that justify and facilitate new forms of exploitation and outmaneuvering of rivals. Popular movements emerged during the twentieth century in Mexico and Central America in response to authoritarian rule, agrarian restructuring, and grinding poverty, but the timing of these movements has varied from country to country, depending on the shifting coalitions of elites and the changing nature of agrarian class relations in different regions. The actions and reactions of local rulers and the interventions of the United States have been influenced by the sequencing of rebellions and revolutions in Central America, Latin America, and the rest of the world. The Guatemalan nationalist movement after World War II and the U.S. intervention to overthrow the elected government of Jacobo Arbenz in 1954 (Gleijeses 1991) was distinctive in its timing. The other Central American countries had their popular upsurges and repressions in the late 1920s and 1930s. John Markoff's 1996 and 1998 studies of waves of democratic movements and institutional inventions show that these occurred on an interactive world stage rather than in isolation in each country. This also needs to be said of the revolutions of the twentieth century. Both the rebels and the forces that sought to defeat them learned much from previous efforts elsewhere. The world-systems perspective encourages us to see both the uniquenesses of particular political situations and the overall picture of twentieth-century resistance and repression. One irony of the differing sequences is the current situation in southern Mexico and the quite different situation across the border in Guatemala. After 30 years of civil war, Guatemalans are tired of killing and want to make the peace work, while in southern Mexico a long-dormant situation, the Chiapas struggle for land ownership, has heated up. William Robinson (1996, 1998, and in this issue) sees the emergence in each Central American country of a new ruling class fraction of the domestic elite that represents the interests of global capitalism; this transnational elite promotes neoliberal policies and openness to global investment. Robinson contends that the outcome of the 1980s struggles was a system of elite-controlled elections in which this transnational elite gained the greatest share of power. This analysis is substantially accurate, but the Central American countries have important differences that must be considered. One is the difference in movement-repression sequences. More significant, as Robinson points out, is that the strength of the neoliberal fraction varies substantially from country to country, and is perhaps weakest in Guatemala. It is also important to realize that the neoliberal domestic elite may sometimes have interests that contradict the policies of the neoliberal international organizations, such as the World Bank and the IMF. On these issues, the domestic neoliberals may join the older landed elites in a common cause to defend Guatemalan "sovereignty" against the meddling of the international financial institutions (IFIs) and the UN. Nevertheless, although it now controls the presidency, Guatemala's neoliberal transnational elite is not very powerful against the older agroexporters and the military, at least in comparison with the other Central American countries and Mexico. The original Guatemalan "liberals"-the agroexporting elite-are reluctant to pay income taxes, so the Guatemalan government must fund itself mainly by extracting revenues from the poor by means of consumption taxes. The old ruling families have found enough allies to prevent a tax reform that would put the state on a firmer fiscal basis. Without such a reform, even neoliberal development projects have little hope of success. The issue of tax reform is one in which at least some of the domestic neoliberals may have more in common with the landed elites than with their transnational class allies as represented by the IFIs. On a visit to Guatemala in 1997, then IMF director Michael Camdesus explicitly stated the need for tax reform in Guatemala to put the state on a sound fiscal foundation. The Consultative Group (a subcommittee of the Group of Seven, the elite club of most-developed core countries) has used its financial leverage (based on a huge commitment of loans and grants for development projects) to try to move the implementation of the peace accords forward (Ruthrauff 1998). The Guatemalan case bears other important distinctions. The existence of both poor ladinos (mestizo or culturally hispanic) and a large group of indigenous people (indeed, a majority of the population) has added a strong ethnic dynamic to intra-and interclass relations. This ethnic division among the poor has made it easy for the rulers to pit exploited groups against one another. This element also operates in southern Mexico, but it is much less important in the other countries of Central America. The prospect for a cross-border (Guatemala-Chiapas) Mayanist alliance that coordinates and cooperates with the global indigenist movement (Wilmer 1993) could be a powerful force in regional politics; but the importance of a strong working alliance between indigenous and ladino popular groups cannot be overemphasized. Indigenous identity needs to include a class analysis so that common interests between ladinos and Maya can be conceptualized and organized. The need for this reconciliation of sorts is underscored by the current upsurge in domestic crime. The Guatemalan revolutionary armed struggle that began in the 1960s was never strong enough directly to threaten the power of the central government, but it did stimulate a huge repressive effort supported by the CIA, in which the official armed forces received massive resources and recruited large numbers of poor young men from both the ladino and Mayan regions. This method of suppressing the revolt provided an avenue of employment and security that is, ironically, contracting since the peace accords. This is probably the most important cause behind the current outbreak of kidnapping and robbery. GLOBALIZATION FROM BELOW, OR DELINKING? Labor movements in Guatemala have already partially succeeded in forging new implementations of the old notion of labor internationalism and in mobilizing support from the United States and other core countries based on concerns about human rights and the labor provisions of international trade agreements (Frundt 1987; Armbruster 1998). The problems of cross-border labor organizing and international labor solidarity are great, but the new organizational terrain of global capitalism requires new strategies (Stevis 1998). Because the globalization project has abrogated social compacts between business and labor in core countries, especially the United States, there are new possibilities for cooperation among Latin American and U.S. workers and their organizations. John Sweeney, the president of the AFL-CIO, visited the leaders of independent unions in Mexico City in 1997. This willingness to look at new alliances is a welcome relief from the longstanding Cold War approach to labor internationalism that was AFL-CIO practice until Sweeney's reform group took the leadership. Armbruster (1998) reports that help from the AFL-CIO was an important factor in the organizing success of the workers at the Phillips-Van Heusen plant in Guatemala. Women's movements in El Salvador have made important efforts to link their struggles with sympathetic groups in other Central American countries and in the United States. In Mexico, the resurgent electoral left, the agrarian movements in Chiapas and Guerrero, and independent trade unions have found that common opposition to neoliberalism is a uniting force. Some of Mexico's popular leaders have made an effort to mobilize support from the United States, but as yet, not many see this as part of a larger effort to democratize both Mexico and the global system. The emerging popular responses to globalization and neoliberalism face an important and potentially divisive issue. One possibility for mobilizing against global capitalism is "delinking" and self-reliance. Another, very different approach is to respond to global capitalism by building global democracy. The world-systems perspective has much to offer in considering the value of these options. The neoliberals have pronounced withdrawal from the capitalist world economy as unthinkable, and many popular leaders seem to agree. The wonders of technology and communications are alleged to be the highest prizes, and only by playing the game of competitiveness can a developing country have access to these. But some critics are now questioning whether the "necessity" of openness to the global economy is worth the costs. This is a healthy response because it unmasks many of the ideological presuppositions of neoliberalism. People need housing, clean water, and healthy food; it is not necessary to be able to program the microwave oven from the car radio. Still, new information technologies can make it easier than ever to organize transnational movements. Maximum advantage needs be made of these while holding the light to justifications of submission based on alleged economic necessity. The notion that self-reliance is an anachronism needs to be examined in historical perspective. Protectionism and national mobilization of development have been useful and successful strategies in the past. The semiperipheral national societies that later became hegemons in the Eurocentered world-system (England, the United States) all utilized tariff protectionism and state-sponsored mobilization to move themselves up the value-added hierarchy. The communist states used self-reliance and socialist ideology to try to establish a new mode of accumulation, though they ended up trying hardest to catch up with core capitalism. The demise of the communist states is also alleged to prove the worthlessness of state planning and self-reliant economic nationalism. But the successful practice of upward mobility in the world-system demonstrates the value that state intervention and protection of certain activities can have (Evans 1995). These strategies in the communist states did indeed "work" in terms of industrialization and urbanization, though the utopias they were intended to forge did not actually result. Instead, capitalism expanded and reincorporated these semiperipheral challengers. Today, this picture of challenge and response needs to take in the higher degree of economic and political integration of the current world-system. It is undoubtedly costlier to drop out of a more integrated system than to drop out of a less integrated one, so the costs of going it alone have increased. These costs have always been higher for small countries, such as those in Central America. This is why small countries have a greater interest in cross-border cooperation among popular movements. But the institutions of nationalism and the existing rules of the interstate system make such cooperation difficult. Popular movements in Guatemala face the dilemma of whether to focus on local and national-level institutions and alliances or on international and global ones. Would it be more productive to gain a voice in the national state and to use national sovereignty to provide protection from global market and geopolitical forces, or to try to reform the world-system by promoting popular democracy? The national route has a long history and is supported by the existing institutions, while the international route is little understood and in great need of imagination. Global democracy can be defined abstractly, but what would it mean in practice? Globalization from below would mean choosing the international alternative. In practice, neither a purely national strategy nor a purely global one would work for Guatemala, or any other country in the contemporary context. So the real problem is to decide on the mix and to pursue coordinated and complimentary approaches. POLYARCHY AND BEYOND Robinson's analysis raises another issue in the Guatemalan situation. Guatemala has not yet really achieved polyarchy, let alone real democracy. Polyarchy, while it may be largely a smokescreen for continued domination and inequality, is undoubtedly better than rule by the military. The implementation of the peace accords has gone very slowly; some observers have wondered if the current government is seriously committed to the process (for example, Jonas, this issue). The main problem, though, is that the weak neoliberal elite fraction cannot afford to push too hard on the military or the agroexporting elite families. Opposition to neoliberal policies should also serve as a unifying strategy for different kinds of popular movements in Guatemala. Globalization from below, in concert with popular forces in other Central American countries and Mexico, would most naturally be organized around opposition to neoliberal policies and institutions. In Guatemala, however, it might make tactical sense for the popular forces to ally themselves with the transnational neoliberals and the IFIs in the short run, so as to obtain concessions from the agroexport dynasties regarding the fiscal strength of the state and demilitarization. The implementation of the peace accords has at least the possibility of establishing the trappings of an electoral democracy with popular participation. Under these conditions, the campaign against neoliberalism might need to be postponed. This does not mean that popular movements should keep quiet. I agree with Robinson that strong popular movements in Guatemala can provide the support that the global and local neoliberals need to push through peace accord implementation. Once electoral democracy with popular participation is firmly in place, the campaign against neoliberal policies can commence in earnest. In the meantime, the popular movements need to learn about the history of the world-system and the globalization project. This, and the pursuit of further international popular alliances, will make it possible for Guatemalans to benefit from, and contribute to, globalization from below. Global democracy begins at home. NOTES An earlier version of this article was presented at the National Science Foundation-sponsored conference on Guatemalan Development and Democratization: Proactive Responses to Globalization, March 26-28, 1998, Universidad del Valle, Guatemala. Thanks to Patricia Landolt, Susanne Jonas, John A. Booth, and Bill Robinson for their suggestions. 1. The Kondratieff wave (K-wave) describes a worldwide economic cycle with a period of 40 to 60 years in which the relative rate of economic activity increases (during "A-phase" upswings) and then decreases (during "B-phase" periods of slower growth or stagnation). 2. What is needed here is a strong linkage between the trajectory of the world-system and the situation in Guatemala today. The theoretical perspective presented above would be much more useful if it were combined with a world-system history and formal comparative analysis that looks at the last two hundred years in local, regional, continental, and global frameworks from the focal point of the Guatemalan people. This research needs to be done. In its absence, I present a commentary on the current situation that uses insights from the longterm, large-scale perspective presented above. REFERENCES Amin, Samir, Giovanni Arrighi, Andre Gunder Frank, and Immanuel Wallerstein. 1982. Dynamics of Global Crisis. 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Christopher Chase-Dunn is Distinguished Professor of Sociology and director of the Institute for Research on World-Systems at the University of California, Riverside. His Global Formation: Structures of the World-Economy was republished in 1998. He is coauthor (with Terry Boswell) of The Spiral of Capitalism and Socialism: Toward Global Democracy (2000). His current research examines the trajectories of economic and political globalization over the past two hundred years. Chase-Dunn presents a short summary of the world-systems perspective on globalization as relevant to considering the possibilities and probabilities of Guatemala's prospects for democracy and development. Guatemala's structural position in the larger global political economy is examined. Copyright Journal of Interamerican Studies Winter 2000 Sources:UMI JOURNAL OF INTERAMERICAN TUDIES AND WORLD AFFAIRS 01/2000 <<...>> <<...>> <<...>> 09Dec1999 BRASIL: Novos rumos para o socialismo. Em brilhante conferência feita em 1997 no Canadá, John Kenneth Galbraith rememorou a importância do socialismo, da social-democracia, do trabalhismo, neste século, no sentido de humanizar o capitalismo e salvá-lo do colapso que seu desenvolvimento autônomo inevitavelmente provocaria. A organização dos trabalhadores, o fortalecimento de suas lutas por reiteradas e crescentes conquistas sociais, a invenção de direitos da cidadania e instituições que compuseram verdadeiras redes de proteção social são obras políticas inexcedíveis dos socialistas/social-democratas/trabalhistas. Sua importância para a maior estabilidade social e econômica, e melhor cooperação entre capital e trabalho, foi reconhecida pelos próprios defensores do capitalismo, que passaram a colaborar para o aperfeiçoamento do chamado Estado de Bem-Estar Social. Aquelas conquistas representam, por assim dizer, a materialização dos resultados de lutas políticas inspiradas pelos princípios de solidariedade e de justiça social, que são os valores ideológicos básicos daqueles que Galbraith chamou de "comprometidos com o social"(social concerned), para incluir também os liberals americanos e canadenses. Representam, também, uma fase de alta criatividade política do socialismo, da social democracia e do trabalhismo, de invenção institucional, que se pensava só ser encontrável em processos revolucionários, mas que se afirmou através de um longo período de reformas iniciadas na Europa do Norte e Ocidental e que se alastrou, com variações de um país para outro, pelos outros continentes, inclusive a América Latina. Isto só foi possível porque naquela etapa da história do desenvolvimento do capitalismo geravam-se enormes ganhos de produtividade nas linhas de produção fordistas, facultando uma distribuição que beneficiava não só os detentores do capital, que acumulavam e reinvestiam seus ganhos, mas também os assalariados, que cresceram em número e em poder aquisitivo. Importa frisar, portanto, que foi a capacidade política dos socialistas de todos os matizes que permitiu fazer com que o aumento geral da produtividade resultante das inovações tecnológicas e dos novos métodos de gestão e comercialização introduzidas pelos capitalistas, no último século, fosse compartilhado pelos trabalhadores. Melhores salários e condições de trabalho, bem como planos de seguridade com maiores benefícios só foram possíveis porque os partidos de esquerda pressionaram para incorporar parte substantiva dos ganhos de produtividade em favor dos assalariados, ou seja, porque souberam aproveitar-se positivamente do progresso técnico, sem temê-lo. Agora vive-se uma nova crise do capitalismo, de múltiplas dimensões. Uma delas se reflete nas instituições do Estado de Bem-Estar. É verdade que já não funcionavam a contento, em muitos países em desenvolvimento, mas agora há crises de financiamento em todas as instituições do Bem-Estar, inclusive em países ricos, onde alguns direitos e serviços sociais são demasiado generosos. Estamos no limiar de uma nova era, que foi preparada nos últimos 20-30 anos pela chamada globalização, ou seja, a interação de três processos: expansão extraordinária dos fluxos internacionais de bens, serviços e capitais; acirramento da concorrência nos mercados internacionais (contestabilidade dos mercados); e a maior integração entre os sistemas econômicos nacionais. Os três processos ocorreram simultaneamente, em grande intensidade, facilitados pela telemática e pela alta liquidez internacional, e sem provocar, até aqui, contramovimento protecionista, intervencionista e regulador. Ressurge o velho problema de realização do capital, que busca estratégias de saída para a crise de acumulação. Enquanto não a encontra, não tendo destino produtivo, dedica-se à especulação financeira selvagem e de alto risco. Tudo indica, como procurou demonstrar Giovanni Arrighi, que estamos no fim de um grande ciclo de acumulação (o quarto) e às portas de um novo período de grande expansão econômica. Precisa-se de criatividade, como fizeram os socialistas/social-democratas e trabalhistas do passado, para compreender as transformações econômicas e sociais em curso e propor as novas instituições políticas de que a Humanidade vai precisar, para avançar. Assim como ocorreu com o processo de Industrialização do mundo, no final do século XIX e início deste, com a chamada Grande Transformação, de Karl Polany, os agentes políticos responsáveis têm de domar a globalização econômica e usar sua força para resgatar os contingentes populacionais excluídos em todos os continentes. Sem dúvida, os imensos ganhos de produtividade que serão gerados oferecem oportunidade imperdível para promover-se um intenso processo de redistribuição do poder, da riqueza e da renda, entre as regiões e entre as pessoas. Os socialistas têm de ser capazes de inventar novas instituições, ou reformar as existentes, de modo a que favoreçam esta redistribuição, indispensável para um futuro de paz e progresso para o homem. Em qualquer circunstância, a implantação de instituições socialistas típicas dependerá claramente da evolução das sociedades em ambiente político cada vez mais democrático. LUIZ SALOMÃO é deputado federal pelo PDT-RJ. (c) 1999 AGÊNCIA O GLOBO AGÊNCIA O GLOBO - A INFORMAÇÃO EXTRAORDINÁRIA TEL:55 21 534 5742/57. Sources:O GLOBO (PORTUGUESE LANGUAGE) 09/12/1999 P7 <<...>> <<...>> <<...>> 11Nov1999 BRASIL: "Trata-se de abrir mão de um mito". São Paulo, Quinta-feira, 11 de Novembro de 1999 da Reportagem Local Leia abaixo trechos da entrevista do historiador Jacob Gorender à Folha: (HCS) Folha - O sr. diz que a classe operária é, em si, reformista. Essa posição não é incomum, raro é o modo como o sr. a expressa. Jacob Gorender - O que se dá é que Marx tomou como premissa o fato de ser o proletariado uma classe revolucionária. Isso está mais do que claro em sua obra. E os marxistas em geral, eu inclusive, aceitamos esse princípio. Hoje podemos observar isso com bastante clareza: o fato de ser explorada não é suficiente para que uma classe seja revolucionária. O proletariado é, sem dúvida, uma classe explorada, criadora do valor do qual se apropria a burguesia em uma parte. Ele é combativo como reformista, isso eu acentuo. Não obteve nada graciosamente da burguesia, mas não deixa, por isso, de ser reformista. Folha - O sr. acha que os trabalhadores intelectuais assalariados podem assumir o papel de classe revolucionária. O que tornaria essa classe ontologicamente (em si) revolucionária? Gorender - Eu não afirmo "ontologicamente". Afirmo que eles podem assumir esse papel por dois fatores: primeiro porque é um setor assalariado que está crescendo; segundo porque ocupam não só as clássicas posições de formadores de opinião, mas também posições-chave no processo de produção. Considero que isso é discutível, mas é a procura de um novo sujeito. Folha - Não tenderia a acontecer com esses trabalhadores o mesmo que o sr. diz acontecer com os políticos que representam a burguesia, ou seja, a aspiração à condição de burgueses? Gorender - Uma série de alternativas é possível. Vejo uma repetição cada vez mais grave das crises do capitalismo, um aumento das desigualdades, uma situação que pode levar a uma radicalização de um grande conjunto de assalariados e em particular desses que têm, por suas condições, uma capacidade maior de percepção. Folha - Esse grupo não teria de ser tão grande, numericamente, quanto o proletariado? Gorender - Eu não coloco isso como condição ""sine qua non". Digo que já é uma classe-massa, já não é somente uma classe-elite. Ao que parece, esse segmento será cada vez maior, dependendo do avanço tecnológico, e pode ser que suplante o proletariado tradicional também em quantidade. Folha - O sr. cita autores históricos, como Marx, Lênin, Trótski, mas também dialoga com brasileiros como Maria da Conceição Tavares, Fernando Haddad e Francisco de Oliveira. Gorender - Eu valorizo os autores brasileiros. Considero que são nomes importantes, que têm uma contribuição e eu me manifesto a respeito dela. Não estou dizendo quem é mais importante, Robert Kurtz, Giovanni Arrighi, Paul Kennedy ou eles. Para mim, é indispensável falar a respeito deles. Folha - O sr. é um marxista otimista. Acredita numa revolução ou reforma que leve ao socialismo. Não estaria aí repetindo o utopismo que critica em Marx? Gorender - Pode ser que, no final, apesar de me empenhar numa filtração das idéias utópicas, eu próprio ainda seja utópico. Mas essa conclusão eu deixo para o ""post-mortem". Eu me empenhei em retirar do "corpus" marxista aquelas teses que são manifestamente utópicas. Algumas dizem respeito ao futuro, se o Estado vai desaparecer ou não. Eu penso que a história não termina com o capitalismo, mas quando ele vai sair de cena, eu evito. Além disso, incorporei de forma bastante clara o elemento da indeterminação, da incerteza, tal qual as ciências exatas modernas. Não é uma mera repetição de afirmações que Marx fez como ressalvas. Para mim, é um elemento novo no marxismo,fundado na experiência concreta do século 20. Folha - Há dez anos caía o Muro de Berlim. Gorender - Eu não me associo às comemorações da queda do muro. Não vou me associar a George Bush, a Helmut Kohl. Nunca vi o muro como algo louvável. Foi algo triste, lamentável, que bem representou o tipo de socialismo de certo modo até carcerário que existiu até 1991. A queda do muro pelo menos eliminou um fator de divisão. Folha - O sr. vê o PT como um partido social-democrata e reformista. Assim, hoje ele representaria mais a classe operária? Gorender - De certo modo, sim. Não digo isso como uma censura ao PT, que nasceu colado à classe operária e que não pode ser muito diferente do que representa. Ele entrou nos canais do reformismo da própria classe operária. Folha - Os trabalhadores assalariados intelectuais não têm um partido organizado que defenda seus interesses. Gorender - Eu creio que esses representantes já estão nos partidos que existem. Não espero que eles se organizem num partido isolado, podem atuar nos já existem, no PT, no Brasil, por exemplo. Eu não faço muita figuração a respeito desse segmento. Folha - Isso tem um significado prático. É desistir de fazer do proletariado senhor da história. Gorender - Não se trata de desistir, mas de abrir mão de um mito, de que o proletariado assumiria o papel de vanguarda. Essa expectativa não existe mais, isso é mais ou menos difundido no meio marxista, mas talvez não se tenham dito as coisas da maneira que eu digo. Agora podemos tomar as coisas com mais propriedade do ponto de vista concreto. Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da Agência Folha. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1999, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 11/11/1999 <<...>> <<...>> <<...>> 31Oct1999 ESPAÑA: El largo siglo XX. Giovanni Arrighi Ediciones Akal En este trabajo se reconstruyen los cambios fundamentales que han jalonado la relación entre la acumulación de capital y la formacióan del Estado a lo largo de 700 años. El autor consigue sintetizar la teoría social, la historia comparativa y la narración histórica en un lúcido análisis de las estructuras y los protagonistas de la historia mundial en el último milenio. Su lectura obliga a reflexionar sobre las regularidades y modelos de actuación de un sistema socioeconómico que para incrementar algunas de sus estrategias, opera con una gran plasticidad. Diario El País Internacional, S.A., 1999. Sources:EL PAIS (SPANISH LANGUAGE) 31/10/1999 <<...>> <<...>> <<...>> 30Aug1999 BRASIL: Revista - PUC-SP lança nova revista "Praga". São Paulo, Segunda-feira, 30 de Agosto de 1999 REVISTA Evento com debate acontece hoje PUC-SP lança nova revista "Praga" da Reportagem Local "Arte Contemporânea e as Tarefas da Crítica" é o tema do debate de lançamento do oitavo número da revista "Praga" (editora Hucitec), que se realiza hoje, a partir das 19h30, no auditório 333 do prédio novo da Pontifícia Universidade Católica de São Paulo (PUC-SP), na r. Monte Alegre, 984. Participam do debate o filósofo Paulo Arantes (professor do departamento de filosofia da USP), o crítico de cinema Ismail Xavier (professor da ECA-USP), Ricardo Fabrini, professor de história da arte da PUC, Iumna Simon e João Adolfo Hansen, ambos professores de letras na USP. Três dos debatedores (Arantes, Hansen e Fabrini) escrevem ensaios sobre o tema do debate para o novo número de "Praga", revista editada por intelectuais de esquerda, a maioria de filiação marxista e de origem paulista. "Praga" traz um artigo do linguista e ativista político norte-americano Noam Chomsky e outro do historiador e economista Giovanni Arrighi sobre o predomínio militar e financeiro dos EUA hoje. O economista Celso Furtado escreve sobre "A Reconstrução do Brasil", e o cientista político José Luís Fiori, da Universidade Federal do Rio, sobre "A Riqueza de Algumas Nações". Há ainda uma entrevista com o economista e sociólogo Francisco de Oliveira e uma resenha inédita em português do historiador Fernand Braudel sobre dois livros do também historiador Caio Prado Júnior, publicada pela primeira vez em 1948. Texto Anterior: Próximo Texto: Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da Agência Folha. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1999, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 30/08/1999 <<...>> <<...>> <<...>> 01Jul1999 USA: Looking back - Radical criminology and social movements. By Shank, Gregory. THE LAUNCHING OF CRIME AND SOCIAL JUSTICE (NOW SOCIAL JUSTICE) IN 1974 WAS a logical extension of the creation of alternative - some thought revolutionary - institutions that had their roots in the period spanning the late 1960s to 1975: the free universities, cultural expressions like the San Francisco Mime Troupe, the Bay Guardian, and research groups like the North American Congress on Latin America (NACLA) that bridged the academic and off-campus "Movement" worlds (the civil rights, Black and Chicano Power, antiwar, gay liberation, and feminist impulses that gave such research its political poignancy). 1 In that sense, even though Crime and Social Justice was the first radical criminology journal in the United States, it began appropriately without much fanfare. Yet the year itself was anything but unremarkable. In the popular culture, the jazz world lost Duke Ellington, Bob Dylan was "Tangled up in Blue" on his Blood on the Tracks album, Muhammad Ali danced like a butterfly and stung like abee, and Hank Aaron eclipsed Babe Ruth's home run record. Although the Students for a Democratic Society (SDS) had already self-destructed by splintering into a group promoting symbolic violence and another intent on democratic-centralist oblivion, college campuses were still highly politicized due to the war in Indochina. Nonetheless, academic repression was beginning to take its toll (disrupting the livelihoods of faculty members who were among the founders of the journal). The Black Panther Party had split over whether to achieve their goals via a peaceful electoral strategy promoted by Bobby Seale and Huey P. Newton or through Eldridge Cleaver's last-gasp revolutionism (before he opted for reactionary politics), and the Black liberation movement had become polarized between Marxist and cultural nationalist positions. The Native American armed occupation of Wounded Knee began in 1973, but FBI repression at Pine Ridge remained intense through 1976. Meanwhile, the anti-rape movement had made significant progress as part of the larger women's movement, and prison reform was still a serious topic. The Symbionese Liberation Army (SLA), who like some early radical criminologists romanticized prisoners, stormed onto the scene and kidnapped Patricia Hearst from a home near the journal's Berkeley office. It was not long before SLA members were incinerated on real-time TV. This episode helped to undermine much of the remaining public support the prisoner movement enjoyed and reinvigorated right-wing countersubversive forces that had run perilously short of genuine Communists to persecute. They seized upon the "international terrorism" issue by making spurious links between the SLA, the Weather Underground, Germany's Baader-Meinhof group, the Italian Red Brigades, the Angry Brigade (a British terrorist group founded on the principles of the Enrages of 1968 France), and the PLO, even though from 1965 to 1976 a substantial number of incidents involving political violence were attributable to right-wing and racist sources. The grand jury had become a police state instrument during its heyday between 1970 and 1974. Domestic government spying was intense; Francis Ford Coppola's movie, The Conversation, dramatized the Watergate-era paranoia over wiretapping, invasion of privacy, and the apparent absence of conscience at the highest levels of government. Between 1957 and 1974, the FBI's COINTELPRO operation kept files on nearly 500,000 Americans whom J. Edgar Hoover and other FBI officials considered to be subversives or potential "national security risks" and infiltrated organizations such as the Medical Committee for Human Rights and the National Lawyers Guild, not to mention the Black Panther Party and the American Indian Movement. Federal intervention in the 1970s transformed U.S. law enforcement into the largest, most expensive, and most punitive system of justice in the world. A "police-industrial complex" was created through enormous subsidies and an integration of military expertise, command and control techniques, and weapons, communications, and data collection technology. By 1974, the police received nearly 60% of the nation's $15 billion criminal justice budget - eight times the amount allocated a decade earlier. The number of police officers in this country nearly doubled in the decade between 1965 and 1975. Police helicopters hovered over barrios and housing projects; paramilitary SWAT units learned team policing concepts that adapted Vietnam-era armed responses. African American, Latino, and left organizations opposed these trends and called for civilian review boards and "community control," but to little avail. In the end, the U.S. became even more insecure about crime and was readied for the prison explosion of the 1980s and 1990s. Articles of impeachment were drafted against President ("Tricky Dick") Nixon in 1974 during the political and constitutional crisis known as the Watergate scandal. Having lost the confidence of U.S. ruling circles, Nixon was forced from office. In Vietnam, fighting escalated and the United States would soon be forced to exit in disarray. Rightist dictatorships collapsed in Portugal (1974), Greece (1974), and Spain (with Franco's death in 1975). With this came the precondition for united European democracies to coalesce into a future economic superpower, but it also unleashed liberation movements in Africa as Portugal undertook immediate decolonization. In France and Italy, the balance of forces had swung substantially to the left. The end of the great postwar economic boom of 1945 to 1973 was punctuated by the OPEC oil price hike. A world economic recession ensued. The 1974 recession under President Ford was perhaps the deepest cyclical downturn since the 1930s and was exacerbated by a military slowdown under conditions of deescalation and detente that deprived the U.S. economy of a defense against recession that had been relied upon in the 1960s. Globalization had entered a new monetary and financial regime in response to "stagflation" - low growth due to an absence of profitable investments, low productivity, and rising prices. Japan's economy showed zero growth from 1974 to 1975 and state managers in Europe's industrial powers were overwhelmed by high unemployment and the ineffectiveness of traditional Keynesian remedies. Corporate power had attained a global reach, first as multinationals and then as transnationals, and in 1973 the corporate-political elite created a corresponding policy-making institution, the Trilateral Commission, with the "ungovernability of democracies" high on the agenda. Within such an ambiance, a progressive criminology movement emerged primarily at U.C. Berkeley's School of Criminology to challenge the traditional guardians of order and to begin the work of transforming the self-crippled discourse of technicians (to use Alvin Gouldner's phrase). With its commitment to combining radical analysis with political organizing, it is perhaps miraculous that the enterprise survived at all in what is probably the most reactionary field in the social sciences. The progressive criminology movement was international in scope: it was not confined to one national culture, but varied in its cultural and political origins. It was conditioned by the events of 1968 - the French May, the Italian "Hot Autumn," the German 68er "cultural revolution" and student movement, and the year of the barricade in the U.S., in short, the worldwide student rebellion together with the My Lai massacre and Tet Offensive in Vietnam, the Soviet occupation of Czechoslovakia, and Martin Luther King's assassination. In 1968, the School of Criminology at Berkeley had a radical presence that actively promoted student power, antiwar and anti-imperialist politics, and was close to the Black Panthers in Oakland. We were active in the campus-wide strike led by the Third World Liberation Front in 1969, the massive community and student struggle known as "People's Park," the struggle against the use of behavioral modification and brain surgery in prison, as well as the campaign for community control of the police in 1971. The Bay Area Women Against Rape came into existence in 1971. In the summer of 1972, the Union of Radical Criminologists (URC) was formed by a small group of students and teachers at the Berkeley School of Criminology with the aim of becoming a national organization, promoting radical ideas and community projects, as well as supporting the victims of academic repression. The URC was not long lasting, but it served as an important transitional organization. It had a hand in the anthology, Policing America, edited by Tony Platt and Lynn Cooper. In 1973, the URC and NACLA jointly initiated the Center for Research on Criminal Justice. Its research on repression and national trends conducted for the purpose of serving organizations struggling against the criminal justice system - culminated in the 1975 classic, The Iron Fist and the Velvet Glove: An Analysis of the U.S. Police. Crime and Social Justice began as a task group within URC and commenced publication in 1974. Its founders saw the need for a publication that would "bring together the analyses and programs of people working to build a movement to overcome the oppressive criminal justice system and the system of exploitation it supports." A global perspective was built into the initial issues because we saw that the U.S. government was involved in developing and legitimizing repressive criminal justice systems around the world. Indeed, to reduce criminology to domestic issues was to unnecessarily restrict our understanding of repression and resistance. The journal has endured, independent of institutional support, under various titles ever since. Some publishing know-how carried over from staff members who had also worked on Issues in Criminology (1965 to 1975), a publication of the graduate students at Berkeley's School of Criminology that was an outgrowth of the Free Speech Movement. The editorial mandate of Social Justice has expanded over the years beyond issues of crime, punishment, and social control to encompass globalism, international human rights and civil rights domestically, border and immigration issues, environmental victims and health and safety issues, critiques of the state and welfare reform strategies, as well as analyses of gender-and ethnicity-based inequalities. The journal remains true to its initial task of debunking and transforming agency-determined criminal justice research, but it has also incorporated elements of world-systems analysis, which took shape in the 1970s as a form of critique capable of explaining America's imperial role in the global system known as historical capitalism. Articulate world-systems theorists, Immanuel Wallerstein and Chris Chase-Dunn, belong to our advisory board, and Andre Gunder Frank remains a valued contributor and at-large adviser. Incorporation of the worldsystems perspective preceded, but was also reinforced by, the 1988 merger of Crime and Social Justice and Contemporary Marxism (1980 to 1987). Many on the latter staff had been members of NACLA's West Coast office, which accounts for much of the rich "Americanist" perspective that would appear in the pages of Social Justice. Before the merger, the two journals were projects of Global Options, a nonprofit institute in San Francisco committed to research and advocacy on world affairs that was founded in 1986. Uncommon Wealth: The Contribution of Great Britain, Canada, and Australia European critical criminologists established the largely academic, left-ofcenter European Society for the Study of Deviance and Social Control, whose first conference was organized by Mario Simondi, Stan Cohen, Ian Taylor, and Karl Schumann in September 1973. Members of the Crime and Social Justice Collective participated. The British component emerged in 1968 - a year of student occupations in Britain, the emergence of Tariq Ali as a student leader, an antiVietnam demonstration in London that turned into a battle with police outside the U.S. embassy, and Enoch Powell's prediction of "rivers of blood" in an impending race war - from a group consisting of left activists Laurie Taylor, Stan Cohen, Mary McIntosh, Ian Taylor, Paul Walton, and Jock Young. In 1973, the latter three, who became Contributing Editors to our journal, published The New Criminology. This influential work was an ironically titled critique, as it was a return to European grand sociological theory, although some at the time would have preferred its focus to be beyond criminology. A collective work, it had its origins in the National Deviancy Conference, which was formed by the 1968 group and grew to some 400 members who shared a dissatisfaction with European social democracy and a desire to expose the criminogenic nature of British capitalism. This United Kingdom-based body of sociologists and individuals involved in social action (on behalf of squatters, radical social workers, and the prisoners' union) did its best to support the group of radicals under attack at Berkeley's School of Criminology. Many of the original participants are still active, along with newer faces.2 From this group and others working along similar lines flowed a rich literature, ranging from those of Stuart Hall and his associate's work at the Birmingham Center for Contemporary Cultural Studies to "realist" criminology, social control theory generally, and variants on postmodern theory. Hall, long one of our Contributing Editors, was a major figure in the revival of the British Left in the 1960s and 1970s and remains a visionary race theorist in the 1990s. The work of this British group resonated with that being done in the U.S. since the U.K. also experienced a massive shift to coercion in the 1970s, with the "birth of the `law and order' society," as Stuart Hall, Charles Critcher, Tony Jefferson, John Clarke, and Brian Roberts argued in Policing the Crisis: Mugging, the State, and Law and Order. The Labour government then in power presided over a deteriorating economy, an annual inflation rate above 25%, unrest in Northern Ireland, countercultural drug use, squatters, nonwhite immigration, and a general "crisis of hegemony." The term "mugging" was imported from the U.S. in the 1972 to 1973 period into British culture as an image and set of relationships already condensed in U.S. law enforcement ideology - crime, black youth, fear of social disorder, and the conviction that society had become too permissive toward crime and criminals. Policing the Crisis made good use of Marxist cultural theory inflected through Gramsci's theory of hegemony and an Althusserian conception of the media as an ideological state apparatus largely concerned with the reproduction of dominant ideologies. Another important theorist, Paul Gilroy, also discussed the evolution of "race" as a policing problem and the transformation of urban disturbances in the 1970s into a race problem. Tony Bunyan made a significant contribution with his The Political Police in Britain, through his work on the now-defunct State Research, and through police monitoring units, including that of the Greater London Council. Another critical approach came from Christopher Williams, whose Environmental Victims (Vol. 23, No. 4) we published in 1996. Currently, despite Prime Minister Tony Blair's tough-on-crime stance, the British are even less secure in terms of environmental and criminal victimization, and in terms of the workplace. The Canadian movement, which was strongly influenced culturally and politically by Europe and the U.S., began to congeal in 1975. Marie-Andr6e Bertrand was a Contributing Editor to our journal at the time its first issue appeared. She had experienced the wave of neoconservatism that engulfed the Universite de Montreal in reaction to the 1968 uprisings before coming to Berkeley asa visiting professor in 1973. 'Another early participant, Yvon Dandurand, noted in 1975 that attempts to create a radical criminology periodical had failed and that radical approaches to criminology appeared in the community at large and in struggles for social justice (such as Claire Culhane's work with the Prisoners' Rights Group, First Nations struggles, and those concerned with police surveillance), rather than in academia. Over 10 years later, when we published Canada and the U.S: Criminal Justice Connections (CSJ No. 26, edited by R.S. Ratner), Canada still lacked a radical criminology journal. That changed with the inauguration of the Journal of Human Justice (1989-1995), spearheaded by Chuck Reasons, Tulio Caputo, Brian MacLean, R.S. Ratner, Paul Havemann, and others. (In 1996, that title continued as Critical Criminology: An International Journal, a publication of the Critical Criminology Division of the American Society of Criminology.) In 1974, the Bathurst riot occurred in Australia, destroying the prison and leading to aperiod of reform in the prison system. Gang violence and street assaults were media and popular concerns in the mid-1960s and early 1970s, a decade of relative affluence. Mass Vietnam protests, opposition to the 1972 South African rugby tour, and the rise of Koori (aboriginal) protest and militancy generated a physical contest over public space, the streets, and a volatile ideological climate into which issues of crime, especially "street crime," were inserted. In this climate, the Alternative Criminology Journal (1975 to 1981), edited by David Brown, sought to radicalize criminology by ending its separation as a separate discipline, divorced from political theory and political economy. Writing in Law in Context: A Socio-Legal Journal (Pat O'Malley and Kit Carsen served on it Editorial Board), Adrian Howe argued, as had Elliott Currie in 1974, that the point, however, was to get out of criminology and to reconceptualize the whole terrain as a sociology of law, crime, and criminalization. Although Australia had been incorporated as a new subsystem in the world-system through the "Pacific Rim Strategy," it has resisted some of the more punitive responses to a law and order culture, such as "three strikes" legislation and the death penalty, which American crime policy embodies. Some of this resistance comes to Australia via Europe. In an "Australian response" to the theme of "Law and Order for Progressives?" in our journal, Gill Boehringer, Dave Brown, Brendan Edgeworth, Russell Hogg, and Ian Ramsay argued in favor of broadening the debate over crime to include domestic violence, health and safety, and the practices and control of state agencies such as the police. Later, Pat O'Malley guest edited an issue of Social Justice entitled The Politics of Empowerment in Australia (Vol. 16, No. 3, 1989) that fulfills that objective while exploring Australia's role in the global system. Italian Critical Currents Events in Italy during our founding years paralleled many experienced in the U.S., with several major exceptions. One was the amazing sea of red banners during huge mobilizations of the Italian Communist Party, the labor movement, and an insurgent extra-parliamentary Left I had witnessed during Italy's "Hot Autumn" in 1969. Such wide-scale support for the "Italian Road to Socialism" equally impressed members of Crime and Social Justice Collective who attended the European Society for the Study of Deviance and Social Control in Florence in 1973. Public confidence in the government had plummeted and, by 1974, Italy briefly lacked a government altogether. The Red Brigades emerged in the early 1970s, a time of worsening economic problems and great political turbulence, with saber-rattling on the Right, kidnappings, bombings of major Italian cities, and selective shootings, especially of law enforcement officers. The CIA poured in millions of dollars to prevent the Communists from coming to power (also a goal of the Red Brigades) and trained the Italian security services to confront disorders and student demonstrations, to prepare dossiers, and make use of bank data and the tax returns of individual citizens. An aggressive Italian judiciary and law-enforcement apparatus made innovative use of repentant and confessed criminals turned state's witnesses, first to quell the Red Brigades and then to take on the Mafia. There was some exchange between the extra-parliamentary opposition (Lotta Continua, Il Manifesto, and Potere Operaio) and intellectual circles and the student movement. Lotta Continua was active in the prisoners' movement. At the time, prisons were at the boiling point in Britain, the U.S., Australia, Canada, and Italy. Not surprisingly, Dario Melossi and Massimo Pavarini focused their work on the origins of the penitentiary system. Their The Prison and the Factory builds on Marx' concept of primitive accumulation. They reintroduced Georg Rusche and Otto Kirchheimer's Punishment and Social Structure and later offered a critique of Michel Foucault's Discipline and Punishment, which was influenced, like many of the works developed in that milieu, by the theoretical work of Antonio Gramsci and Louis Althusser. Melossi was a kindred spirit to our journal group and we had the pleasure of meeting him during his brief research sojourn in Berkeley. He was a founder and member of the Bologna School, which was responsible for the publication of La Questione Criminale: Rivista di Ricerca e Dibattito su Devianza e Controllo Sociale up to the 1980s and of Dei Delitti e delle Pene in the 1990s. Alessandro Baratta and Massimo Pavarini recently resuscitated Dei Delitti e delle Pene (under the auspices of the Italian National Research Council) after a three-year hiatus, with the aim of interpreting the changes in crime and the social order within the processes of European integration and economic globalization, of analyzing discourses on crime and punishment, and of theorizing on issues such as the needs for safety and its relation to constitutional and human rights. Others from the early period, including Tamar Pitch, Vincenzo Ruggiero, and others, still work together through that journal. In 1989, members of the Social Justice Editorial Board would work with the International League for the Rights and Liberation of Peoples to compile an issue entitled Human Rights and People's Rights: Views from North and South. The League was founded in 1976 by an Italian member of Parliament, Lelio Basso, who before his death in 1978 made clear his belief that socialism without democracy was not possible, just as a democratic order without activism was not possible. We knew of Basso's work in the early 1970s, when he presented a paper in Santiago, Chile, on the use of legality in the phase of transition to socialism, as well as that of Giovanni Arrighi, who has made an important contribution to the world-systems literature. The Critical Legacy in Germany In the Federal Republic of Germany, the SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund) became the core of a widespread student rebellion against reactionary regimes in the Third World, against U.S. policy in Vietnam, and against long-standing government attempts to supplement the constitution with emergency laws that would confer dictatorial powers on the government in the event of a political crisis at home or abroad. In 1968, the Young Socialists - the organization of the younger members of the Social Democratic Party - declared its opposition to the emergency legislation; the student rebellion, increasingly under the banner of revolutionary socialist slogans, also called for its immediate rejection. In April 1968, after a right-wing attempt to assassinate SDS leader Rudi Dutschke (following incitements especially in the reactionary Springer Press), riots erupted. Berlin and other cities in West Germany saw the heaviest street fighting since the Weimar Republic, and students and young workers throughout West Germany invaded Springer's offices and burned its vans in protest. In a major setback for the student movement, the government passed the emergency legislation with only minor modifications. The over-escalation of radical direct action tendencies that followed soon destroyed the SDS and led to the disintegration of the nascent alliance between core groups in the working-class trade union movement and the intellectual opposition. This was the Germany I encountered in the summer of 1969, when I was working in Libri Buchhandlung's Frankfurt warehouse and studying sociology part time at the University of Mainz. An older factory worker who had quit the Communist Party in disgust over Stalin's policies tutored me in "scientific socialism" to offset my fascination with the ideas of the French Situationist International ("All power to the imagination!"). It was not until I returned to the U.S. that I became familiar with German critical criminology.3 Much of that early work hadbeen organized under the banner of the Arbeitskreis Junger Kriminologen (Working Party of Young Criminologists). They began publishing Kriminologisches Journal in 1969 and the journal continues to be associated with the University of Hamburg. Fritz Sack, a central figure, was a visiting professor at the University of California, Berkeley, in the mid-I960s and has been a contributor to Social Justice. Another journal, Kritische Justiz, launched in 1968, survives today with an editorial mandate to analyze the law and its practical application in its social, economic, and political contexts. Similar to other countries, there was serious contention over whether the new criminology should be critical, radical, or Marxist. An article by Falco Werkentin, Michael Hofferbert, and Michael Bauman that appeared in our second issue is entitled "Criminology as Police Science or `How Old Is the New Criminology?"' (CSJ No. 2, 1974). It reflects a Marxist perspective that distinguished itself from an early critical approach of Fritz Sack, a "Marxist-interactionist theory of criminology." Helmut Janssen, an editor of Radikale Kriminologie, an anthology of primarily U.S.-based radical criminologists published in German in 1988, claimed that a radical or Marxist criminology was never able to develop in the Federal Republic of Germany because of the prohibition on the German Communist Party (KPD), the Berufsverbot-a purge mandated by the Right of the professions, including the civil service and education - the fragmentation of the Left, and the absence of a university-level Marxist school. Yet critical criminology has deep roots in the "critical" social theory of the Frankfurt Institute of Social Research (the "Frankfurt School"). Theorists like Max Horkheimer, Theodor Adorno, and Herbert Marcuse (a group forced into exile in 1933 and then only reluctantly readmitted in 1945) generated powerful critiques of structures of inequality, authority, and power, as well as of ideological hegemony. Important for the 1968 movement were theories drawing on the Frankfurt School, among others, that argued that the working classes of the West had lost their revolutionary vocation, and that the focus of such activity had shifted to the peoples of the Third World and to marginalized sectors in the West, including immigrants, women, and youth. The Frankfurt School also accomplished what Foucault's panopticon theory of social control did not: it linked the concept of discipline (and what this means culturally) with changes in the capitalist management of work. Georg Rusche and Otto Kirchheimer's Punishment and Social Structure, which was introduced by Horkheimer and ironically only appeared in German translation in 1974, is a product of the Frankfurt School and was repopularized during the crisis of the late 1960s and early 1970s after years of neglect. The School has had other lasting impacts. Sebastian Scheerer and Henner Hess, in their recent defense and reformulation of the social control thesis against the steady encroachment of the concepts of "discipline" and "social exclusion" draw on Marcuse's One Dimensional Man to link his notion of "repressive tolerance," the harmless and sometimes illusionary satisfaction of real or artificially induced needs, with social control. After the events of 1989 (e.g., the collapse of the GDR), Jirgen Habermas (once Adorno's assistant) cautioned the state-supporting legal establishment that a constitutional state cannot be maintained without a radical democracy. Another aspect of Germany's new criminology is Falco Werkentin's work with the Berlin-based Biirgerrechte and Polizei (Civil Rights and the Police, CILIP). Since the mid-1970s, he has produced diverse research projects and publications on German police history and on the politics of internal security. As the anti-authoritarian revolts of the 1960s peaked, sectors of the German New Left devolved into a wave of bombings, kidnappings, and murders by groups such as the Baader-Meinhof/Red Army Faction. Beginning in the 1970s, this triggered an unprecedented enlargement and reconstruction of police and secret services in the Federal Republic. No federal police force like the FBI existed in Germany before the Red Army Faction terrorist campaign of the 1970s. To allay fears that another Hitler might arise, West Germany's post-World War II constitution had established a very loose confederation of states (Lander), each with its own police. The terrorist threat was a pretext for the Lander to cede some of their power and strengthen the federal border police (BKA) into an FBI-like institution. After unification with East Germany, the basis for expansion of police power shifted from the terrorism of the 1970s to the dangers of atomic technology and the destruction of the environment to the drug trade and right-wing extremism. In 1986, I returned to Frankfurt to participate in a symposium organized by Heinz Dieterich on "State Terrorism in the Third World." Papers by Noam Chomsky and James Petras (both members of our Editorial Advisory Board) as well as by Edward S. Herman were eventually published in our special issue, Contragate and Counterterrorism: A Global Perspective (CSJ 27-28, 1987). I reconnected with Falco Werkentin in Berlin as well as with the delightful editor of Das Argument, Wolfgang F. Haug, at the Freie Universitat Berlin. I was also fortunate to meet world-systems theorists at the Starnberg Institute for Research on Global Structures, Developments, and Crises. Folker Frobel, Jorgen Heinrichs, and Otto Kreye had just published Umbruch in der Weltwirtschaft (which can be translated as reorganization of or revolutionary change in the world economy), an exploration into the new international division of labor and the crisis of the capitalist world system. That April of 1986 truly felt like a crisis, if only because radioactive fallout from the Chernobyl disaster was raining down on Germany, on me, and, by coincidence, on Pat O'Malley, the Australian theorist. In 1974, the architect of Ostpolitik, the Social Democrat Willy Brandt, had been forced to resign because of a spy scandal involving East Germany and was succeeded by Helmut Schmidt. That year, rapid inflation was accompanied by rising unemployment and was exacerbated by the presence of four million guest workers and their families. The crisis passed, but a more revolutionary event would later envelop the East. Just months beforluence, though, was a brief interlude in which some policies of the former Soviet Union were at times uncritically accepted. 7. The Critical Criminology Division has 320 members (under 190 faculty members and under 90 students and other researchers), although I have also seen a total figure of over 400. Both the Marxist section and the Political Economy of the World-System (PEWS) section of the American Sociological Association struggle each year to reach 400 members. GREGoRY SHANK is the Managing Editor of Social Justice (GregoryS9 @aol.com). He was a member of the original Crime and Social Justice Collective. Shank describes what was happening in 1974 in terms of the political-economic conditions and social movements that propelled the unlikely emergence of a radical criminology around the world. Copyright Social Justice Summer 1999 Sources:UMI SOCIAL JUSTICE 07/1999 <<...>> <<...>> <<...>> 27Jun1999 BRASIL: Tendências internacionais - Gilson Schwartz - Urubus e passarinhos. São Paulo, Domingo, 27 de Junho de 1999 LIÇÑES CONTEMPORÂNEAS Urubus e passarinhos LUIZ GONZAGA BELLUZZO Charles Klindelberger, escrevendo sobre o crash de 1929, dizia que a posteriori é fácil ironizar as hipóteses que, naquela ocasião, procuravam justificar as taxas elevadas de capitalização das ações. Os gurus então encastelados nas colunas das revistas e dos jornais não se cansavam de proclamar uma nova era de prosperidade capaz de assegurar uma elevação continuada dos preços. Nem o respeitável economista Irving Fisher escapou à tentação de afirmar, às vésperas do crash, que os preços das ações ainda eram modestos, diante da força de acumulação de lucros das empresas americanas. Tais "teorias", diga-se, não eram diferentes das que vêm encontrando acolhida entusiasmada, neste final de século, na literatura de divulgação "especializada". Klindelberger negava que os níveis de preços e os volumes de transações fossem exagerados, apontando "os precários mecanismos de crédito" como os responsáveis pelo colapso de 1929. A economista Jane D'Arista, do Financial Markets Center, analisando os dados mais recentes do Federal Reserve sobre o comportamento do crédito e do endividamento nos Estados Unidos, revela aspectos interessantes do atual ciclo de valorização de ativos. Desde o começo dos anos 90, as corporações do setor financeiro vêm se endividando a um ritmo muito superior àquele apresentado pelas empresas e famílias que compõem o chamado setor não-financeiro. Entre 1992 e o primeiro trimestre de 1999, a dívida das famílias e das empresas produtivas cresceu 36%, contra 124% do setor financeiro. Ao longo da década, os empréstimos anuais do setor não-financeiro passaram de dois terços para menos de 50% do total. O relatório do Federal Reserve, "Flows of Funds Accounts of the United States", de 1998, mostra ainda que, a despeito do aumento espetacular de US$ 2.661,7 bilhões no valor do estoque de ações, a colocação líquida de papéis foi negativa. Nos últimos cinco anos, ações no valor de US$ 544,6 bilhões foram retiradas do mercado, devido aos movimentos de fusões, aquisições e à compra de papéis da própria empresa para evitar a transferência selvagem da propriedade. O uso abundante do crédito para alavancar posições especulativas não se restringe aos mercados à vista, mas se estende aos mercados futuros de índices, taxas de juros e câmbio. Desde 1992, dobrou o valor dos ativos e passivos dos "dealers" e "brokers". Agora, como nos anos 20, parece que vem se ampliando desmesuradamente a demanda de crédito destinada à circulação financeira. E esse é um sinal mais seguro da existência de uma "bolha" do que a própria evolução dos preços dos ativos. A grande diferença, entre ontem e hoje, parece estar na capacidade das autoridades monetárias em empreender intervenções de últimas instâncias para conter os colapsos de preços dos ativos e para reverter as contrações do crédito que se sucedem a esses episódios. Alguns analistas desconfiam, no entanto, que a peculiaridade da atual conjuntura internacional reside na convivência entre forças contraditórias: 1) tendências à deflação ou ao crescimento lento dos preços nos mercados de bens e serviços; e 2) surtos recorrentes de aceleração de preços nos mercados de ativos financeiros e reais cuja oferta é inelástica a curto prazo. A política monetária norte-americana opera, portanto, entre o objetivo de prevenir a ampliação da discrepância entre o movimento dos preços da produção corrente e a necessidade de regular a "exuberância irracional" dos mercados financeiros, tentando evitar a formação de bolhas especulativas, ou seja, a explosão descontrolada dos preços das ações. Um hipotético rearranjo de portfólios, acompanhado de uma correção de preços das ações, dando início a um ciclo "baixista" nos mercados financeiros americanos, pode colocar as autoridades monetárias americanas diante de decisões complicadas. Diante da integração dos mercados financeiros, não seria improvável uma fuga dos ativos denominados em dólares. O temor da saída de capitais recomendaria a manutenção ou até mesmo a subida dos juros de curto prazo. Tais medidas poderiam, no entanto, tornar mais agudo e rápido o processo de "encolhimento" da bolha formada pelo crescimento desmesurado dos preços dos ativos financeiros. Um colapso abrupto dos preços e a inevitável contração do crédito levariam inevitavelmente a economia à depressão. Será preciso muito engenho, arte e coordenação entre as políticas monetárias para conter os movimentos cumulativos e de auto-reforço desencadeados pela deflação de ativos e pelo "credit crunch". O desenvolvimento da economia capitalista neste final de século parece dar guarida à idéia de Giovanni Arrighi de que a predominância do capital financeiro sinaliza o outono dos grandes ciclos de expansão do capitalismo. No entanto, comparado com etapas anteriores, o outono do final do século 20 se apresenta como uma síntese "expressionista" dos predecessores. A "financeirização" e a correspondente valorização fictícia da riqueza, como nunca, vêm subordinando a dinâmica da economia. Luiz Gonzaga Belluzzo, 55, é professor titular de Economia da Unicamp (Universidade de Campinas). Foi chefe da Secretaria Especial de Assuntos Econômicos do Ministério da Fazenda (governo Sarney) e secretário de Ciência e Tecnologia do Estado de São Paulo (governo Quércia). Texto Anterior: Próximo Texto: Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da Agência Folha. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1999, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 27/06/1999 <<...>> <<...>> <<...>> 12Dec1998 ITALIA: Karl Marx, nostalgia di un'icona. COMUNISTI Da Ingrao a Parlato, le voci dei partecipanti al convegno sui 150 anni del "Manifesto" - COMUNISTI Da Ingrao a Parlato, le voci dei partecipanti al convegno sui 150 anni del "Manifesto" Karl Marx, nostalgia di un'icona "Marxisti e antimarxisti, amici e nemici, tutti hanno avuto a che fare con quella barba. Una barba che non a caso e' diventata anche un'icona" scherza ma non troppo Pietro Ingrao, avviandosi al convegno di studi dedicato al "Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels 150 anni dopo". I lavori, iniziati ieri mattina, si concluderanno questo pomeriggio. Si tratta, sul piano strettamente cronistico (un bilancio scientifico dell'incontro sara' possibile solo a posteriori), di un'occasione a suo modo unica. Nella grande aula a piano terreno, che ospita la Biblioteca della Camera dei Deputati, si sono infatti dati appuntamento molti fra i piu' collaudati studiosi italiani (e non) del marxismo. A organizzare questo festival del pensiero della sinistra piu' ortodossa sono stati alcuni organi di stampa: "il manifesto", "Critica marxista", "Finesecolo", con il Comune di Roma. In sala ieri mattina c'era una significativa rappresentanza di politologi illustri, chierici del marxismo, leader della "gauche" con mezzo secolo di battaglie alle spalle, veterocomunisti e qualche eretico. Porte aperte anche per gli oppositori purche' colti e garbatamente costruttivi. L'eta' media degli oratori, a fidarsi d'un rapido colpo d'occhio, supera i cinquant'anni ma fra il pubblico non mancano i giovani, gli studenti. Hanno parlato o parleranno oggi, fra gli altri, Valentino Parlato, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Mario Tronti, Giacomo Marramao, Aldo Tortorella, Gianni Vattimo. "Posto che la storia degli ultimi 150 anni e' incomprensibile senza Marx, stiamo cercando di riflettere su cio' che e' vivo e cio' che e' superato nel suo pensiero" riassume Ingrao, che sembra fare dell'intransigenza ideologica una valida diga contro le malinconie dell'eta'. Quella che propongono i vari oratori e', in sostanza, una verifica di Marx nella filosofia, nella politica, nell'economia. A questo riguardo c'e' da credere che Gyorgy Lukacs, l'autore di "Storia e coscienza di classe", si stia rivoltando nella tomba: nel programma non viene, infatti, dato alcuno spazio al rapporto fra marxismo e arte, fra marxismo e critica letteraria. Parlato, a cui chiediamo di spiegarci il perche', scrolla le spalle. "L'argomento del convegno e' il "Manifesto del Partito comunista" e l'argomento del "Manifesto" non e' l'arte e nemmeno la letteratura". Non si puo' tuttavia fare a meno di sospettare, guardando anche ai nominativi degli invitati, che in questo momento alla sinistra marxista interessino meno d'un tempo i cosidetti intellettuali, gli scrittori. Il motivo? Mancano quasi del tutto ormai, nel panorama italiano, i nomi carismatici. Quelli che possono davvero aiutare in un momento di crisi, facendo da esca ideologica o da motore del consenso. Non sono mancate, nella prima giornata di lavori, le critiche al "Manifesto". Le prime sono state mosse da Giovanni Arrighi. La sua relazione ha infatti messo in evidenza come, nel "Manifesto" di Marx e Engels, ci siano due limiti storico - teorici. "Il primo riguarda il ruolo degli Stati e dei loro apparati militari nelle fasi di formazione del mercato globale. Il secondo concerne il ruolo delle identita' razziali ed etniche nel processo di formazione di classi e gruppi sociali. Il superamento di questi limiti rimane il grande problema irrisolto delle forze politiche che si richiamano ai principi enunciati nel "Manifesto"". Antonio Debenedetti. (c) CORRIERE DELLA SERA. Sources:CORRIERE DELLA SERA (ITALIAN LANGUAGE) 12/12/1998 <<...>> <<...>> <<...>> 26Nov1998 UK: Historical Notes - Capitalism and the art of warfare. By Finian Cunningham. FROM A Renaissance landscape of the crucified God to the desolation of a solitary soldier impaled on the barbed wire of a First World War battlefield may seem a preposterous leap of the imagination. Yet there is a solid historical connect-ion: money and the art of statecraft. From the earliest capitalist economic activity in the 13th-and 14th-century city-states of Florence, Venice and Genoa, to the present-day global economy, there are identifiable cycles of capital accumulation followed by periods of stagnation and rebirth. These cycles are characterised by the hegemony of a particular state. Thus the earliest world economy was galvanised by the cluster of northern Italian metropoles. Subsequently, the hegemonic role in the world economy was taken up by the United Provinces of Holland, the United Kingdom and finally the United States of America. While the principal motive force for these historical cycles may be attributed to the over-riding imperative of maximising financial profit, each hegemon has left its distinctive stamp: the northern Italian metropoles pioneered mechanisms of finance and inter-state diplomacy; the Dutch bequeathed the Westphalia System, the founding concept of nation states; the British expanded the system of free markets in line with territorial possession of empire; while under the Pax Americana of the 20th century was born the market-transcending system of global corporate capitalism. In these cycles are two periods - the demise of hegemony under the Italian city-states in the 15th century and under Britain at the cusp of the 19th century - which are of strikingly similar circumstance but with strikingly different outcomes. In both cases, capital was threatened by stagnation, and as a result retreated to safer investment havens. In the Mediterranean, idle finance sought shelter through patronage of the arts. Cultural products, in the form of architecture and paintings, were bought up by capital which could not find more profitable expression. To be sure, there were less benign contemporaneous manifestations. The rival Italian city-states found profitable outlet in financing English and French combatants during their Hundred Years War (1337-1453). And it was frustrated Genoese financiers who propelled the Iberian explorers into conquest of new territories and trade routes to the West, thereby setting the stage for wholesale slaughter and slavery in the Americas. Nonetheless, an abiding legacy of these birth pangs of the capitalist world economy was the cultural Renaissance in art, literature and philosophy - the central subject of which probably being the "God who was crucified so that mankind might live." Four centuries later, however, and with the quantum jump of a second industrial revolution based on petroleum combustion engines, idle finance found expression in scientific militarism. British capital, the hegemon of the day, was being choked by, on the one hand, huge profits flowing in from its free-trade empire, and, on the other, by an under-invested and glutted national economy. The safest outlet for British capital liquidity was in fuelling an unprecedented armaments industry. Pretty soon the national economy was being marshalled by ineluctable capitalist logic in the art of warfare. It was only a matter of time before diplomatic infraction by a rival state would ignite the conflagration of the First World War. Today there are again foreboding elements: economic stagnation, an insecure sense of the end of (American) empire and a proclivity for militaristic diplomacy. Perhaps this time we might learn from history to crucify the gods of money, power and statecraft rather than human beings. `The Long Twentieth Century: money, power and the origins of our times', by Giovanni Arrighi, is published by Verso (£15). Sources:INDEPENDENT 26/11/1998 P7 <<...>> <<...>> <<...>> 22Jun1998 BRASIL: Crise asiática vai ter longa duração, prevê economista. São Paulo, segunda, 22 de junho de 1998 CARLOS HENRIQUE SANTIAGO da Agência Folha, em Belo Horizonte A crise que afeta a Ásia é o preâmbulo do que pode acontecer no mundo "nos próximos dez anos, talvez 20". A afirmação é do economista e historiador italiano Giovanni Arrighi, 60, professor da Universidade John Hopkins, em Maryland (EUA). Para Arrighi, o fenômeno é global e sua solução está além da capacidade de um país isoladamente. Ele afirma, porém, que isso não significa que a situação vai piorar em todos os lugares - depende das medidas que os países tomem para se proteger. Ao mesmo tempo, o economista não crê que os EUA possam manter seu papel de protagonista no cenário mundial. "Assistiremos ao fim dessa era", afirmou ele, em entrevista exclusiva à Folha. Arrighi esteve no Brasil na semana passada lançando o livro "A Ilusão do Desenvolvimento" (editora Vozes), a convite da Prefeitura de Belo Horizonte (MG). Leia a seguir os principais trechos da entrevista. Folha - Quais as consequências da crise no Japão para a economia mundial? Giovanni Arrighi - A questão é se a crise pode ser contida na Ásia ou se vai se espalhar, pois já se espalhou para a Rússia, onde a Bolsa de Valores entrou em colapso. A economia russa já estava em péssimo estado. Minha previsão é que isso é apenas o preâmbulo de coisas que virão, se não agora, daqui a dez anos, talvez 20. O que nós vamos ter é uma série de crises, porque não há um país ou um grupo de países em condições de resolver a crise, que é global. O Japão não é capaz. Folha - A Ásia vai superar essa crise como a América Latina superou a crise dos anos 80? Arrighi - A América Latina ainda não superou os anos 80. Nos anos 90, os países só recuperaram parte do que haviam perdido. A distância entre a América Latina e os países ricos é maior do que era há 20 anos. Acho que o paralelo com a América Latina deve ser feito com países como a Malásia, Indonésia ou Tailândia, mas não com as cidades-Estados como Cingapura ou mesmo Taiwan, que não estão sendo afetados até agora. A grande questão na Ásia é a China, porque esta crise dos países pobres asiáticos está relacionada de perto com os avanços da China, que está subindo (entre os países semiperiféricos), e isso cria tensões no mercado. Folha - A China pode ampliar seu poder econômico com a crise na economia japonesa? Arrighi - É muito difícil dizer até onde a expansão chinesa pode ir, mas a verdade é que os chineses têm sido muito realistas com relação ao mercado mundial. Quando eles vêem que o crescimento está indo muito rápido, pisam no freio. A Coréia do Sul, por exemplo, antes da crise, estava crescendo a níveis insustentáveis, estava indo para mercados que superam sua capacidade, como a indústria automobilística. Mas não é só isso, estava crescendo de modo extremamente rápido em todos os tipos de indústrias. Folha - A desvalorização do yuan pode ser benéfica para a China? Arrighi - O dólar está altamente supervalorizado neste momento e, assim, as flutuações nos valores de câmbio são algo que se pode promover em certas circunstâncias. Essa é a razão porque Taiwan não foi atingido pela crise - porque enquanto as outras taxas de câmbio com relação ao dólar estavam se valorizando, eles desvalorizaram. Dessa forma, não perderam grande quantidade de dinheiro tentando conter a especulação. O fato de que a moeda chinesa possa ser depreciada em relação ao dólar não significa que está desvalorizada em geral, em relação a outros países. Também tem de se observar por quanto tempo a supervalorização do dólar vai continuar. Folha - O Brasil pode ser atingido pela crise no Japão? Arrighi - O Brasil já foi atingido. Nos últimos cinco ou seis meses, houve uma contração nas taxas de crescimento e aumento do desemprego. Antes que as coisas melhorem, elas vão piorar globalmente. Isso não significa que vai ficar pior em todos os lugares. Isso depende do que os brasileiros vão fazer para se proteger. Não tenho uma receita, porque não conheço o suficiente sobre a economia brasileira. Folha - Em seu livro, o sr. cita uma obra de Fernando Henrique Cardoso, "Dependência e Desenvolvimento na América Latina". O sr. pode comentá-la? Arrighi - O aspecto positivo da teoria da dependência era enfatizar o fato de que a estrutura de países tipicamente dependentes não impede seu movimento em relação a outros países mais ricos. O problema é que o que Cardoso e (o chileno Enzo) Faletto (co-autor do livro) parecem entender como desenvolvimento era industrialização e modernização. Países pobres e semiperiféricos se modernizaram rapidamente, mas não reduziram a diferença com os países ricos em termos de renda. Há uma identificação entre modernização e desenvolvimento que não é sustentada pelos fatos. Folha - Os EUA também vão sofrer com a crise no Japão? Arrighi - A "bolha" da economia que explodiu no Japão ainda está para explodir nos EUA. Cedo ou tarde, ela terá de explodir. Os EUA têm de enfrentar essa situação, pois seu aparato político-militar não é forte quanto parece. Eles não podem bombardear qualquer país como fizeram com o Iraque. Oito anos depois, todos os aliados na Guerra do Golfo são contra sua repetição, também porque os EUA não pagaram os custos financeiros - que foram pagos pelo Japão, Alemanha etc. Existe um limite naquilo que os EUA podem fazer com o dinheiro dos outros. Folha - Em "A Ilusão do Desenvolvimento", o sr. diz que a expansão industrial chinesa pode antecipar a expansão do caos do resto do mundo para aquela região... Arrighi - Desde que os EUA deixaram o Vietnã, as relações na Ásia têm sido relativamente pacíficas. Ao mesmo tempo, os EUA têm pressionado os países a abrir os mercados, liquidar indústrias etc. E há fortes movimentos sociais que vão beneficiar a Ásia. Mas também há conflitos internos e o cenário de caos mundial pode aumentar as tensões, levando à abertura na China, o que não acho provável. Vai ser um desastre para o mundo todo, porque não está claro o que poderia acontecer. Mas não acho que a abertura na China seja um cenário provável. Folha - Será o fim de uma era de hegemonia dos EUA? Arrighi - As eras não terminam em um dia. O começo do fim da era da hegemonia norte-americana começou nos anos 60 e 70. O fim ainda está por vir. Penso que nós assistiremos ao fim desta era, mas ele ainda não chegou. Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1998, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 22/06/98 <<...>> <<...>> <<...>> 16Jun1998 BRASIL: Economista italiano não vê vantagem nos dólares. São Paulo, terça, 16 de junho de 1998 da Agência Folha, em Belo Horizonte O economista italiano Giovanni Arrighi acredita que nenhum país necessita de "investimento" estrangeiro para sobreviver. "Qual país enriqueceu com empréstimos dos Estados Unidos?", pergunta. Giovanni Arrighi é economista, historiador e sociólogo. É co-diretor do Departamento de Sociologia da State University of New York at Binghamton e professor visitante da Universidade da Califórnia (EUA). É autor, entre outros, dos livros "O Longo Século 20. Dinheiro, Poder e as Origens do Nosso Tempo" e "A ilusão do desenvolvimento". Ele está no Brasil a convite do programa "Conferências do Centenário", da Secretaria de Cultura de Belo Horizonte. Crítico das teses neoliberais, o economista acha que o único país que leva vantagem quando recebe fluxo externo de capitais é aquele que tem uma "forte posição" no cenário mundial. Um exemplo, segundo ele, seria a China, "que tem um grande mercado consumidor interno e pode negociar com este capital (estrangeiro)". Nos ditos "países emergentes", a estabilidade deveria ser garantida com reformas estruturais e sociais e não à base de injeções monetárias de países desenvolvidos, afirma. "Uma família pobre, para sair da crise, não pode se endividar mais, tem de procurar cortar aqui, cortar ali", diz. Arrighi também é crítico em relação às privatizações, pois em geral são vendidas as que dão lucro Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1998, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 16/06/98 <<...>> <<...>> <<...>> 26May1998 BRASIL: Artigo - Joaquim Francisco de Carvalho - Globalização e neocolonialismo. São Paulo, terça, 26 de maio de 1998 JOAQUIM FRANCISCO DE CARVALHO O ex-ministro Rubens Ricupero, em ótimo artigo aqui publicado no dia 2 de maio, falou das negociações que há dois anos desenrolam-se na OCDE (Organização para Cooperação e o Desenvolvimento Econômico) para aprovar o Acordo Multilateral de Investimentos, cujo objetivo é, em última análise, esvaziar governos nacionais e transferir do setor produtivo para o capital financeiro todo o poder de decisão sobre investimentos industriais, proteção ao meio ambiente, normas fiscais e de remessa de lucros e até políticas sociais. Seria, por assim dizer, uma espécie de neocolonialismo cibernético, sem metrópole geográfica definida. De resto, talvez seja precisamente essa indefinição geográfica que, por sorte, dificulta a concretização do acordo, pois todos temem que a metrópole se localize em outro país que não o seu. Paradoxalmente, o Brasil, a Argentina e o Chile, simples observadores na OCDE, concordavam com tudo, pois nossos governantes consideram que não fica bem opor resistência à globalização, nem naqueles pontos em que esta nos submete à mais voraz exploração. Só assim se explica que bancos e corporações de países desenvolvidos aqui entrem livremente para apropriar-se de empresas estatais que controlam o imenso faturamento assegurado por monopólios naturais, como os serviços de eletricidade. Temos aí uma amostra do esforço dos países industrializados para substituir o atual modelo de repartição da renda mundial, que dá claros sinais de esgotamento, por mecanismos mais eficientes para manter os processos de apropriação de riquezas das antigas colônias e de transferência de lucros de setores produtivos para setores intermediários e atividades especulativas, típicas dos mercados globalizados. Mas nada disso é inteiramente novo. De acordo com J.L. Seitz, em "A Política do Desenvolvimento" (Jorge Zahar Editor, 1991), "os sistemas políticos e sociais que se estabeleceram nas ex-colônias também servem para manter na pobreza a maioria das nações em desenvolvimento. Elites locais, formadas sob domínio colonial, aprenderam a beneficiar-se da dominação. Criaram-se aí duas sociedades: uma relativamente moderna e rica, girando em torno do setor exportador; a outra (o restante do povo) muito pobre, que vivia no sistema tradicional. Com os processos de independência, as elites locais tornaram-se elites governantes e adquiriram hábitos das elites européias (...) a dominação econômica é hoje exercida pela empresa multinacional". Em entrevista ao "Jornal do Brasil" de 16/6/96, o sociólogo francês Jacques Rancière observou: "Dizem que as leis econômicas são inevitáveis. Ora, a política deve ser o campo do possível, não o campo do inevitável. É importante que possa haver escolha. No entanto, políticos, economistas, tecnocratas e empresários, todos, impõem-nos leis inexoráveis, que temos que seguir. O movimento das privatizações na França inclui-se nessa lógica. Há um discurso de que é uma mudança inevitável, contra a qual não há nada a opor. Mas percebe-se que há, nas privatizações, uma investida contra um mundo público, igualitário, viabilizado por transportes, energia, escolas e saúde pública em condições iguais para todos, sejam pobres ou ricos". Como sintetizando esses pensamentos, o economista e cientista social italiano Giovanni Arrighi (atualmente professor titular na Universidade de Binghampton, EUA) declarou, em entrevista ao "JB" de 9/11/97, que "os países pobres, ou relativamente pobres, são irresponsáveis quando entram (na globalização), acreditando que devem fazer concessões ao capital para se tornar competitivos. Isso é ingênuo, pois o capital tem sempre um custo". "De fato, os países que mais receberam capitais externos são precisamente aqueles que agora estão em crise mais profunda, como a Indonésia e a Tailândia. É ingênuo pensar que é preciso se curvar perante o capital para criar condições de integração de um país à economia mundial. O que provoca desastres é que as pessoas entram na globalização com uma idéia muito ingênua do que poderia ser obtido com isso, aceitando níveis de sacrifício que jamais trarão os frutos esperados." Se nossos governantes esquecessem as viagens frívolas pela Europa e, por uma vez, refletissem seriamente sobre essas manifestações dos citados intelectuais europeus, veriam que a privatização globalizante dos monopólios de serviços públicos reconduzirá o Brasil à situação de colônia. Aliás, o presidente da República declarou recentemente, em Genebra, que "não gosta da globalização". Cabe então perguntar onde está sua coerência, pois seu governo, por meio do BNDES, comanda afoitamente o processo. Joaquim Francisco de Carvalho, 62, engenheiro do setor elétrico, é consultor para assuntos de energia. Foi coordenador do setor industrial do Ministério do Planejamento (governos Castello Branco, Costa e Silva e Médici) e diretor da Nuclen Engenharia e Serviços S/A. Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1998, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 26/05/98 <<...>> <<...>> <<...>> 13May1998 ITALIA: EUROPA I campanili da abbattere. Di DEAGLIO MARIO. POCO meno di duemila anni fa, un sistema stradale si dipanava per migliaia di chilometri dalle frontiere della Scozia ai deserti persiani; nel porto di Ostia attraccavano navi cariche di grano del Nord Africa, ambra del Baltico e metalli spagnoli. E passarono quasi millecinquecento anni prima che l'Europa raggiungesse un'analoga organizzazione e un analogo volume di traffico. Tutto cio' dava ai contemporanei un senso di vertigine e un'acuta coscienza del cambiamento. Considerando lo stato del mondo, Lucio Anneo Seneca, filosofo e consigliere politico dell'imperatore Nerone, poteva affermare, nel secondo atto della Medea: "In questo universo percorso dall'audacia umana, niente e' piu' al suo posto. L'indiano si disseta nelle acqua ghiacciate dell'Arasse (un fiume caucasico), i persiani bevono l'acqua dell'Elba e del Reno". Chi considera la scena mondiale di oggi non puo' non condividere l'osservazione di Seneca, l'audacia e l'ingegno umano hanno trasformato il nostro universo rendendolo irriconoscibile. L'elettronica, Internet, le biotecnologie - e l'elenco potrebbe continuare - ci consentono di affermare che nulla si trova piu' in quello che le generazioni non piu' giovanissime possono considerare "il suo posto". Messicani e nordafricani, europei dell'Est e indiani bevono l'acqua dei fiumi del Nord America e del Nord Europa. Seneca, del resto, spagnolo di nascita, faceva parte di un'elite intellettuale-burocratica delle piu' diverse origini, ma che si esprimeva correttamente in latino come oggi un'elite mondiale di intellettuali funzionari e uomini d'affari internazionali si esprime in inglese. Ed e' suggestivo ricordare, come fa, in un recente saggio, Zbigniew Brzezinski, anch'egli - come Seneca, si parva licet - intellettuale emigrato e divenuto, negli Anni Settanta, consigliere politico di un moderno imperatore (il presidente americano Jimmy Carter), che l'impero romano al culmine della sua potenza disponeva fuori d'Italia di circa trecentomila uomini in armi mentre le truppe americane di base all'estero sono 296 mila. Il saggio di Brzezinski (recentemente tradotto in italiano per i tipi di Longanesi con il titolo La grande scacchiera - Il mondo e la politica nell'era della supremazia americana) e' l'esempio piu' recente dell'ansia di rileggere la storia del mondo alla luce della nostra situazione attuale per ricercarvi illuminanti analogie. In un quadro economico, politico, sociale e tecnologico non assestato, questa rilettura porta inevitabilmente a infrangere, alla ricerca di nuove sintesi, le rigide barriere professionali che separano le varie discipline che si occupano dell'uomo. Ecco allora Brzezinski, professore di politica estera alla John Hopkins University, sentire il bisogno di un'ampia sintesi storica sulla quale poggiare la sua originale analisi politico-strategica, mentre storici come l'inglese Paul Kennedy dell'Universita' di Yale, si sono spinti nella direzione opposta oltre i confini della storia, per affrontare il dibattito politico-strategico sul possibile declino futuro della potenza americana. Proprio il libro di Kennedy sull'ascesa e la caduta delle grandi potenze, scritto dieci anni fa, puo' essere considerato come il capostipite di un dibattito interdisciplinare sempre piu' appassionato e ricco di fascino in un mondo che, per costruire il suo futuro, e' portato a rileggere il suo passato. Alla vitalita' del pensiero anglosassone, in questa ricerca di interpretazioni del cambiamento in corso, fa riscontro una certa arretratezza del dibattito europeo continentale. Se l'Europa che si viene creando e' quella delle banche e dell'Euro, cio' deriva anche dall'incapacita' delle altre componenti della societa' europea di raggiungere una "massa critica", e' piu' facile che gli accademici italiani, francesi e tedeschi colloquino con i loro colleghi anglosassoni che tra di loro (e se cio' avviene, sempre piu' spesso il colloquio si svolge in inglese). E mentre gli imprenditori trovano un linguaggio comune nell'economia globale, nei listini delle Borse, nei programmi delle Business schools, sindacalisti, politici, professionisti rimangono fortemente legati a realta' nazionali ormai sul punto di essere superate. I "prodotti culturali" europei nelle scienze umane, dai libri di storia ai testi di economia, continuano cosi' tranne pochissime eccezioni a essere visceralmente radicati nelle tradizioni culturali nazionali. Il continente che ci aveva dato in passato poderose sintesi universali, da Adam Smith a Karl Marx, fino ad arrivare in questo secolo a Keynes e Braudel, pare addormentato nello specialismo e nel campanilismo. Anche il recente bel saggio dell'economista francese Jean-Paul Fitoussi (tradotto in Italia dal Mulino con il titolo Il dibattito proibito, Moneta, Europa, poverta') che pure rappresenta uno sforzo rigoroso di inquadramento generale, risente un poco di un'impostazione francocentrica. "Fare l'Europa" da un punto di vista culturale significa oggi darsi ragione del mondo in cui niente e' piu' al suo posto e cercare di prendere le coordinate di questo universo ribollente, definendo al suo interno il ruolo della nuova aggregazione politico-economica europea ormai ai nastri di partenza. Significa rendersi conto che per il moderno immigrato extracomunitario che si insedia sull'Elba, sul Reno o sul Po, come per il moderno businessman statunitense alla ricerca di occasioni di nuove attivita' su questa sponda dell'Atlantico, le differenze tra i vari Paesi del vecchio continente appaiono marginali. Una simile presa di coscienza puo' essere considerata compito storico degli intellettuali europei alla vigilia dell'unificazione, se l'Europa e' veramente destinata ad avere un futuro. Ed e' interessante a questo proposito segnalare tre contributi italiani, diversissimi tra loro, che segnano in qualche modo un risveglio alle grandi tematiche planetarie. Il primo - segno dei tempi - e' stato scritto in inglese nel 1994 da Giovanni Arrighi, un italiano che insegna in un'universita' americana. Allievo di Braudel e di Wallerstein, Arrighi legge la storia in tempi lunghi e ne Il lungo XX secolo. Denaro, pote re e le origini del nostro tempo, pubblicato in Italia due anni piu' tardi da il Saggiatore, offre una sintesi affascinante e per nulla encomiastica di quel grandioso fenomeno storico che e' il capitalismo. Il secondo e' invece un grande progetto di storia dell'economia mondiale, coordinato da Valerio Castronovo, un'opera che si dipanera' in cinque volumi, con contributi di decine di studiosi italiani e stranieri (tra i quali predominano largamente gli europei) pubblicati da Laterza. Si ha forse uno dei primi, difficili ma indispensabili tentativi di abbozzare una grande riflessione comune a livello continentale; il programma culturale che Castronovo enuncia nell'introduzione, implica il superamento delle barriere disciplinari e il recupero del gusto della sintesi. I primi due volumi, usciti nel 1996 e nel 1997, ci guidano attraverso una serie di rivoluzioni tecnologiche e di economie globali che si sono succedute sulla faccia del pianeta a cominciare da quella neolitica fino ai primordi della moderna economia-mondo. Il che dovrebbe farci riflettere sul fatto che osservazioni come quella di Seneca sono echeggiate piu' volte nella storia e indurci a non pensare che le trasformazioni tecnologiche e sociali che stiamo vivendo, per quanto grandiose, manchino di precedenti. Infine, e' importante segnalare un dialogo su "capitalismo globale e crisi sociale" tra un sindacalista, Giorgio Cremaschi, e un accademico, Marco Revelli, coordinato da Gabriele Polo e pubblicato dagli Editori Riuniti con il titolo Liberismo o Liberta'. Esso segna il superamento, nella sinistra, di una dimensione puramente demonizzante dei cambiamenti attuali, descritti talora in maniera quasi caricaturale, come ne L'orrore economico di Viviane Forrester. Elettronica e capitalismo globale, insomma, non possono essere esorcizzati semplicemente sbandierando Il Capitale. Occorre prima di tutto capire, a sinistra come a destra, e considerare che certe trasformazioni sono ineluttabili. E una di queste trasformazioni e' l'abbandono di "nicchie" concettuali, protette dalla tradizione e dall'abitudine (oltre che da finanziamenti statali a universita' pubbliche, destinati fatalmente a ridursi), in favore di un nuovo, grande confronto delle idee, a livello europeo e mondiale. Mario Deaglio. (c) 1998, La Stampa. Sources:LA STAMPA (ITALIAN LANGUAGE) 13/05/98 <<...>> <<...>> <<...>> 28Feb1998 BRASIL: Coleção de ensaios traz cardápio consistente. Obras ajudam a entender o presente, acertar contas com o passado e discutir as alternativas para o futuro EMIR SADEREspecialOdiscurso econômico é a forma mais mistificada de discurso no mundo contemporâneo. Seu jogo interno de categorias, expressando uma lógica fechada sobre si mesma, fala muito mais de si do que da realidade de que deveria dar conta. Já nos anos 60, Fernando Henrique Cardoso, ainda professor de Sociologia da USP, costumava recomendar como se deve tratar os economistas: "Deve-se colocar as moedas e receber os dados. Deixa que a gente faz a interpretação." Era uma época em que se lia Marx e se sabia que a diferença entre uma teoria econômica de bases científicas e aquela simplesmente apologética está em que a primeira reconhece que as relações econômicas escondem relações sociais e de poder - a ela Marx reservava o nome de economia política -, enquanto que a segunda recorta a realidade de outras dimensões que não as imediatamente econômicas, reduzindo-se a uma visão descritiva e, assim, consciente ou inconscientemente, apologética do sistema econômico vigente. O discurso econômico strictu sensu é economicista, escapa de qualquer determinante histórica, de qualquer referência à luta de interesses entre as forças sociais, em sua auto-suficiência. (Nota: a expressão mais caricatural disso veio de um liberal neófito, o atual presidente do Banco Central, ao afirmar que toda a orientação econômica brasileira desde os anos 30 incorreu no grave erro do protecionismo, agredindo as leis puras do mercado, que nos teriam permitido manter-nos como país primário-exportador até hoje, erro que o governo atual tenta corrigir, tratando de fazer que voltemos a notabilizar-nos como exportadores de café e de soja; talvez sua tenra idade e formação tecnológica não lhe tenha ainda permitido perceber a existência da história.)A lógica de seu discurso gerou o economicamente correto, uma visão que só admite os equilíbrios monetários como horizonte definitivo da humanidade. O resto seriam interesses corporativos, supérfluos gastos sociais, fontes de desequilíbrios orçamentários, emprego de mão-de-obra desqualificada, nível de emprego ameaçador em termos inflacionários, potencial de consumo desequilibrante para a base monetária. Em suma, o resto seriam categorias que apontariam para a realidade social e política, mero epifenômeno das categorias monetárias para as autoridades econômicas e seus ventríloquos.As duas décadas de hegemonia neoliberal se revelaram pobres teoricamente. Dividem-se entre os que manejam os precários equilíbrios micro-econômicos, montados em cavalos loucos da estabilidades monetária, a partir dos quais sua visão da realidade tem a abrangência de um operador de bolsa e o rigor de uma cartomante. E os que se aventuram pelo caminho da história, apenas para explicar por que chegou a um termo final ou se limita a conflitos entre a civilização definitiva - capitalista, liberal, protestante, branca -, e seus desvios. Não por acaso as obras de sucesso dos tempos neoliberais são os descartáveis livros de futurologia e os Nobeis de economia que estudam o funcionamento aparentemente irracional das bolsas de valores, tendo como contrapartida as obras de esoterismo e de auto-ajuda. Não peçam teoria para ministros, presidentes de bancos centrais ou mesmo presidentes da república que outrora já tentaram dar conta de uma realidade que hoje lhes escapa e à qual se adaptam como podem, fazendo com que sua "teoria" seja simplesmente uma bastarda justificativa de adaptações das recomendações de organismos internacionais tutelados pelos grandes bancos.Qualquer visão minimamente compreensiva de mundo de fim de século tem que dar conta, antes de tudo, das transformações do capitalismo em escala mundial. E tem de fazê-lo sem se abandonar à visão tão fácil quanto enganadora de que se trata de uma realidade irrecorrível, diante da qual só existiria a possibilidade de adaptar-nos a ela, conforme pregam o FMI e o Banco Mundial e a que obedecem os governos com juízo (econômico).Os principais debates sobre o período histórico atual se desenrolam exatamente entre os que se apoiam em interpretações históricas sobre o capitalismo, para decifrar a natureza da etapa, suas potencialidades e contradições. Autores como Giovanni Arrighi, Immannuel Wallersterin, François Chesnais, tem se destacado nesse debate, significativamente navegando em águas totalmente desconhecidas pela bibliografia oficial, impermeável a qualquer visão ancorada numa dimensão histórica.Essa bibliografia tem chegado ao Brasil de forma acelerada ns dois últimos anos, a começar pelos livros já clássicos de Arrighi - O Longo Século 20 - e de Chesnais - A Financeirização da Economia, justamente quando o consenso neoliberal perde fôlego. Em ambos, dentro de marcos interpretativos diferenciados, se ressalta a hegemonia do capital financeiro como elemento determinante do período histórico atual do capitalismo. É como se, refeito do quase nocaute que sofreu na última década e meia, o pensamento crítico começasse a recobrar capacidade de iniciativa. Ou se, como "a humanidade só se coloca os problemas que pode resolver", é quando os horizontes do vôo da coruja se anunciam que os novos tempos podem ser vislumbrados.O nome da coleção Zero à Esquerda nasceu quando Paulo Arantes viu rejeitada sua proposta de que a revista Praga levasse esse nome. Arantes se dedicou duplamente ao tema: primeiro, escrevendo o Almanaque Philosóphico Zero à Esquerda, uma espécie de Febeapá da era FHC, onde foi selecionando, - da mesma forma que Stanislaw Ponte Prata fez para o período da didatura militar - as imbecilidades mais significativas do que ele denomina de "ajuste teórico", para que o senso comum possa absorver o Consenso de Washington. Em segundo lugar, criando uma coleção de que esse pequeno manual faz parte, no seu primeiro pacote, junto a volumes de artigos de Arrighi, de Robert Kurz e de José Luiz Fiori, assim como de um livro organizado por Fiori e por Maria Conceição Tavares, a partir de um artigo desta escrito em meados da década passada, prevendo a continuidade da hegemonia norte-americana no mundo, mesmo antes do fim da URSS.O primeiro pacote de livros fornece um mostruário variado da artilharia pesada que vem por aí: Arrighi, Kurtz, Fiori, Conceição Tavares. Esses petardos se farão seguir dos de Ignace Ramonet, Paul Hirst, Robert Castel, Francisco de Oliveira, prometidos para abril, junto a um seminário com a participação dos autores.Arrighi pertence à geração de intelectuais que, a partir do final dos anos 60, se dedicou a atualizar as visões do marxismo sobre a dinâmica de desenvolvimento do capitalismo, fora dos cânones do marxismo soviético, que haviam tido em Varga seu apóstolo e nos manuais soviéticos seus textos sagrados. Àquele grupo pertenceram também Samir Amin, Immanuel Wallerstein, André Gunder Frank, Arghiri Emmanuel, Ruy Mauro Marini, entre outros. Apoiavam-se na teoria da dependência e na do intercâmbio desigual, para entender a periodização do capitalismo ao longo deste século.A contribuição sistemática mais recente de Arighi está no já clássico O Longo Século 20 (Editoras Boitempo/Unesp), onde, apoiado nas teorias dos ciclos longos de Braudel, refaz a trajetória do capitalismo e desemboca na conclusão de que estamos no final de um desses ciclos, sem que esteja claro o desenho de seu futuro. Na coleção de artigos intitulada A Ilusão do Desenvolvimento se reúnem textos já publicados, como Século Marxista, Século Americano e Trabalhadores do Mundo no Final do Século", a outros inéditos entre nós, sobre as ondas longas, sobre a natureza do chamado "milagre asiático", sobre a estratificação da economia mundial entre centro e periferia, sobre as ilusões desenvolvimentistas e sobre a desigualdade mundial.Robert Kurz se notabilizou pelas suas críticas radicais à viabilidade tanto de uma recuperação do capitalismo de sua crise atual, quanto de qualquer forma de superação baseada na sociedade do trabalho, como o marxismo se propõe a ser. A realidade parece que insiste em dar razão a seu catastrofismo, ainda que metodologicamente se conheça seus limites. Ao contrário dos artigos de jornais, no livro da coleção, Os Últimos Combates, há análises mais sistemáticas e sobre temas diferenciados, como o papel da intelligentsia, do imperialismo e da União Européia, em geral retiradas da revista alemã Krisis. Dentre todos se destaca particularmente o artigo que dá nome ao livro, em que Kurz aborda o maio de 68, a greve dos trabalhadores do setor público francês de 95 e os acordos trabalhistas na Alemanha.José Luís Fiori tem sido o mais sistemático analista crítico do governo FHC, nascido para levar a cabo o Consenso de Washington no Brasil, segundo suas análises. Em Os Moedeiros Falsos, título tirado de Gide para se referir ao reino do monetarismo atual, Fiori reúne materiais produzidos entre 1994 e 1997 sobre a conjuntura política e econômica nacional desde o momento de lançamento do Plano Real e da constituição do bloco de centro-direita no poder até o presente.Completando o primeiro pacote da coleção, Fiori e Conceição Tavares organizaram uma série de artigos, Poder e Dinheiro, que partem de uma análise de Conceição, de 1985, em que ela previa que as transformações já em andamento naquele momento na correlação de forças internacionais levariam à consolidação e não ao questionamento da hegemonia norte-americana, como os fatos só fizeram comprovar. Temas como a financeirização do capital, a inserção internacional da América Latina e a expansão e crise da economia japonesa são abordados por autores como Belluzzo. José Carlos Braga, José Carlos Miranda, Carlos Medeiros, Luiz Eduardo Melin e Ernani Torres Filho, além dos dois organizadores.Não somente para os que perderam dinheiro com a crise das bolsas, mas principalmente para os que perderam a fé - ou nunca tiveram - nos esquemas economicamente corretos da atualidade, o conjunto de livros representa um cardápio consistente para entender o presente, acertar contas com o passado e discutir as alterantivas possíveis para o futuro.Emir Sader é professor de Sociologia na USP e autor de 'O Anjo Torto - Esquerda (e Direita) no Brasil (Brasiliense) e 'O Poder, Cadê o Poder? (Boitempo), entre outros livros. (c) 1998, AGÊNCIA ESTADO LTDA. Sources:O ESTADO DE S.PAULO 28/02/98 <<...>> <<...>> <<...>> 27Dec1997 BRASIL: Do mito à ilusão do desenvolvimento. Por JOSÉ ELI DA VEIGA. Acaba de ser lançado um livro intitulado A Ilusão do Desenvolvimento, do sociólogo italiano Giovanni Arrighi (Vozes, 1997). Referindo-se especificamente aos países semiperiféricos, como o Brasil, o autor diz ser quase impossível cruzar o golfo que os separa da fortuna do núcleo orgânico da economia mundial, como chegou a acontecer com o Japão. Mesmo assim não considera ineficazes os esforços desses Estados, pois sem tais esforços eles cairiam na pobreza abismal dos países periféricos.Isso faz lembrar que, há mais de 20 anos, Celso Furtado publicou um livro com um título parecido, mas com argumentação bem diferente. Em O Mito do Desenvolvimento Econômico (Paz e Terra, 1974), Furtado defendeu a tese da impossibilidade prática de generalizar os padrões de vida característicos dos países centrais ao resto do planeta. "O custo, em termos de depredação do mundo físico, desse estilo de vida, é de tal forma elevado que toda tentativa de generalizá-lo levaria inexoravelmente ao colapso de toda uma civilização, pondo em risco as possibilidades de sobrevivência da espécie humana" (pág. 75).No entanto, mesmo convencido de que os povos pobres não teriam chance de desfrutar das formas de vida dos povos ricos, Celso Furtado salientava a utilidade da idéia de desenvolvimento. "Sabemos agora de forma irrefutável que as economias da periferia nunca serão desenvolvidas, no sentido de similares às economias que formam o atual centro do sistema capitalista. Mas, como negar que essa idéia tem sido de grande utilidade para mobilizar os povos da periferia e levá-los a aceitar grandes sacrifícios, para legitimar a destruição de formas de cultura arcaicas, para explicar e fazer compreender a necessidade de destruir o meio físico, para justificar formas de dependência que reforçam o caráter predatório do sistema produtivo? Cabe, portanto, afirmar que a idéia de desenvolvimento econômico é um simples mito" (pág. 75).É interessante notar como o ceticismo de Furtado nos já longínquos anos 70 e o de Arrighi no anos 90 são ambos temperados pela necessidade de destacar a "utilidade" ou a "eficácia" da idéia de desenvolvimento. Certamente é porque não lhes escapou que sem ela não pode haver visão de futuro sobre a qual a sociedade estabeleça suas esperanças e seus projetos. No fundo, a "utilidade do mito" em Furtado como a "eficácia da ilusão" em Arrighi são provas de que a idéia de desenvolvimento continua a ser aquela que melhor exprime a utopia da sociedade moderna (entendendo-se utopia em seu sentido filosófico, e não em sua versão vulgar na qual é sinônimo de sonho ou fantasia).O que continua a dar força à idéia de desenvolvimento é a esperança de uma vida melhor para os desvalidos, e não possíveis sonhos e fantasias sobre as chances de os países semiperiféricos entrarem no Primeiro Mundo, ou sobre a possibilidade de generalização dos padrões de vida do núcleo central. Por isso, enquanto não surgir uma noção que melhor sintetize essa esperança, não há motivo para se dispensar a idéia de desenvolvimento, por mais ambigüidades que ela possa conter.Foi essa esperança que levou outros intelectuais à elaboração de indicadores de desenvolvimento que pudessem combinar objetivos sociais e metas de crescimento. Aliando o otimismo da vontade ao pessimismo da razão, estudiosos como Amartya Sen e Michael Lipton ajudaram a lançar, em 1990, a melhor medida disponível de desenvolvimento: o Índice de Desenvolvimento Humano (IDH). Hoje, a ONU não somente define como avalia o desenvolvimento pelo alargamento das escolhas das pessoas.As escolhas mais importantes são: viver uma vida longa e saudável, ser instruído e gozar de um nível de vida adequado. Escolhas adicionais incluem liberdade política, garantia de outros direitos humanos e vários outros elementos ligados ao auto-respeito - incluindo o que Adam Smith chamava de capacidade de envolver-se com os outros sem ficar "com vergonha de aparecer em público". Essas são algumas das escolhas essenciais e a sua ausência pode bloquear muitas outras oportunidades. O desenvolvimento humano é, assim, um processo de alargamento das escolhas das pessoas, bem como de elevação do nível de bem-estar atingido (Pnud, Relatório do Desenvolvimento Humano 1997, pág. 15).Com essa definição, qualquer país pode ser avaliado por suas realizações médias em três dimensões básicas do desenvolvimento: longevidade, conhecimento e padrão de vida. Foi, assim, construído o índice composto por três variáveis relativamente simples: esperança de vida, nível educacional e PIB real per capita. As vantagens dessa abordagem sobre as anteriores são óbvias. O único problema é que existe uma inclinação da ONU a reduzir a ambição do desenvolvimento a uma agenda de erradicação da pobreza. Se isso pode funcionar é tema para outro artigo.José Eli da Veiga, professor do Departamento de Economia da FEA-USP, é presidente do Programa de Pós-Graduação em Ciência Ambiental da USPE-mail: zeeli@usp.br. (c) 1997, AGÊNCIA ESTADO LTDA. Sources:O ESTADO DE S.PAULO 27/12/97 <<...>> <<...>> <<...>> 30Nov1997 BRASIL: Livros - O embate Arrighi x FHC. São Paulo, domingo, 30 de novembro de 1997. FERNANDO HADDAD especial para a Folha O leitor brasileiro já conhece o trabalho de Giovanni Arrighi intitulado "O Longo Século 20". O livro foi muito bem recebido entre nós, como, aliás, em todo lugar. No que diz respeito à nossa história, no entanto, suponho que "A Ilusão do Desenvolvimento" desperte um interesse maior. Ainda que seu objeto não seja propriamente o Brasil, creio que esse livro ajude a iluminar nossa condição de nação semiperiférica. Naquele trabalho seminal, Arrighi aceita a concepção braudeliana de uma economia estruturada em três andares - o da produção material, o do mercado e o das altas finanças-e centra suas análises nesse último, interessado que estava em elucidar as mudanças espaciais no alto comando da economia mundial. Dessa história, nós brasileiros não somos protagonistas. Nesse livro, Arrighi desce também aos andares inferiores, estudando tanto as relações centro-periferia quanto as relações capital-trabalho. Nesses andares, o Brasil ganha uma posição de destaque. Além disso, "A Ilusão do Desenvolvimento" oferece um rico esquema analítico para avaliar objetivamente as pretensões do governo FHC de proporcionar ao país um ciclo de desenvolvimento que nos aproximará do chamado núcleo orgânico da economia mundial. A sociologia de Arrighi é, por assim dizer, uma sociologia das disjunções. Arrighi, tal como Marx, aborda o processo de acumulação de capital, só que inserido num contexto onde a disputa entre os Estados é tão importante quanto a concorrência entre capitais. Ao fazê-lo, Arrighi percebe que muito daquilo que na teoria marxista permanece logicamente conectado, na verdade, realiza-se historicamente de forma desconexa quando introduzida essa variável de inspiração weberiana. E essas importantes disjunções podem ser observadas nos três andares do esquema de Braudel. "No andar superior", Arrighi aponta para a disjunção entre as relações de poder no sistema inter-Estados e as relações de liderança econômica no sistema inter-empresas, o que abre a possibilidade de pensar uma dispersão espacial disforme do poder econômico das empresas e do poder militar dos Estados. Segundo Arrighi, isso aconteceu no final do século passado, quando os EUA assumiram a liderança econômica graças a uma prática mista de protecionismo estatal e integração vertical das empresas, permanecendo, não obstante, uma potência militar secundária. Essa disjunção exacerbou o conflito inter-Estados, sendo que a fase de prosperidade que se seguiu (1896-1914) foi o resultado dos gastos militares associados à escalada desse conflito, e a fase depressiva (1914-45) assumiu a forma peculiar de uma competição militar entre os Estados, particularmente Inglaterra e Alemanha, em vez de entre empresas e inter-Estados. Segue-se daí mais um período de prosperidade (1945-73), caracterizado pela tentativa das empresas dos demais países, particularmente o Japão, de alcançar as vantagens organizacionais das empresas americanas. Quando isso ocorre, o acirramento da competição lança a economia mundial numa nova fase depressiva. Durante a crise econômica mundial dos anos 70-80, contudo, foram as empresas do Leste asiático que a enfrentaram com maior vantagem competitiva, graças a um sistema específico de relações inter-empresas que se irradiou por toda região, inclusive a China: o sistema de subcontratação de múltiplas camadas. A expansão econômica leste-asiática pode significar, segundo Arrighi, a imigração, por meio do Pacífico, do centro geopolítico dos processos de acumulação de capital. Contudo, diferentemente da transição do poder econômico britânico para o americano, a transição atual não se beneficiou de um estado de guerra aberto entre os EUA e a antiga URSS. O Japão financiou os custos da escalada da Segunda Guerra Fria dos anos 80 sem extrair dessa "ajuda" as vantagens auferidas pelos EUA quando financiaram a campanha militar da Inglaterra contra a Alemanha. Desse modo, aquela disjunção entre o poder econômico do sistema inter-empresas e o poder militar do sistema inter-Estados pode estar sendo gestada novamente, com resultados imprevisíveis. "No andar intermédio", a disjunção é de outra natureza. Aqui, Arrighi explora os efeitos da divisão do trabalho no plano internacional. Segundo ele, é precisamente esse fator que divide o mundo em núcleo orgânico - onde se realizam as atividades "cerebrais"-e periferia - onde se realizam as atividades "neuromusculares". As atividades "cerebrais" são aquelas associadas ao fluxo de inovações que a concorrência intercapitalista enseja. Como se sabe desde Schumpeter, essas atividades de "destruição criativa" proporcionam aos agentes inovadores aqueles ganhos superiores ao lucro médio proporcionado pelas atividades rotineiras "neuromusculares". Para Arrighi, contudo, do mesmo modo que Schumpeter supôs que as inovações orientadas para o lucro e seus efeitos se agrupam "no tempo", podemos supor que se agrupem "no espaço". O desafio está em explicar por que isso acontece, uma vez que o agrupamento no tempo é produto direto da própria lei da concorrência, enquanto o agrupamento no espaço é uma subversão dessa lei. Aqui entra em cena novamente a hipótese da multiplicidade de jurisdições políticas. Quando empresas de determinada localidade começam a inovar, elas fortalecem indiretamente o poder político da jurisdição na qual operam, que, por sua vez, terá maior liberdade para criar um ambiente jurídico-institucional e de infra-estrutura econômica (externalidades) mais favorável para a atividade inovadora, num processo circular e cumulativo. O núcleo orgânico goza, assim, de uma riqueza "oligárquica" não-universalizável. Ao contrário, as tendências do processo implicam uma polarização crescente da economia mundial numa zona periférica e numa zona de núcleo orgânico. Os dados, entretanto, revelam a existência de um conjunto de países semiperiféricos que consegue resistir à periferização, embora não acumule forças para superá-la. Esses países, de alguma forma, conseguem isolar as atividades típicas de núcleo orgânico de dentro de suas jurisdições das pressões competitivas mundiais, mas, ao fazê-lo, privam-nas de possíveis economias de escala e daquele ambiente competitivo que favorece o processo de inovação. Dessa forma, os países semiperiféricos industrializam-se sem se desenvolver, crescem, mas apenas para permanecer no mesmo lugar, relativamente aos países do núcleo orgânico. "No andar inferior", finalmente, Arrighi observa mais uma disjunção. Segundo ele, o marxismo imaginou um cenário no qual o crescente poder social do operariado, derivado da associação resultante do avanço da indústria, e a crescente penúria do operariado, derivada da concorrência entre os operários no mercado de trabalho, criariam uma situação revolucionária. Contudo, para Arrighi, o poder social e a penúria do operariado realmente cresceram conforme as previsões, mas de forma polarizada, com o proletariado em algumas regiões experimentando um aumento de poder social, e o proletariado de outras regiões experimentando um aumento da penúria. Essa disjunção é o elemento principal da explicação da cisão no pensamento marxista entre revisionistas e leninistas. Para Arrighi, se se toma o período 1896-1948, encontram-se evidências que validam tanto as concepções revisionistas quanto as leninistas. O proletariado de alguns países conseguiu pelos métodos propostos por Bernstein transformar seu crescente poder social em maior bem-estar econômico e maior representação política. O mesmo período conheceu também os maiores sucessos da revolução socialista, levados a cabo por vanguardas revolucionárias que assumiram o controle dos governos de quase metade da Eurásia, cuja legitimidade se assentava no empobrecimento das massas exploradas cada vez mais numerosas. Contudo, se a penúria maciça era a base do movimento revolucionário, depois da tomada do poder ela se tornou um completo embaraço, impondo às camadas dirigentes socialistas a realização de desagradáveis tarefas que a burguesia deposta foi incapaz de cumprir, entre elas, a proteção militar contra agressões estrangeiras, e subordinando os interesses autênticos do proletariado a sua consecução. Tudo somado, o que se viu foi que, "onde o poder social do proletariado era significativo e crescente, a revolução socialista não teve clientela; e onde a revolução socialista teve clientela, o proletariado industrial não teve poder social". A história dessa disjunção só começa a mudar com a crise sistêmica que teve início nos anos 70. Essa crise, resultante do esgotamento da revolução organizacional norte-americana, dá ensejo a uma corrida ao corte de custos, que acarreta um aumento da penúria do proletariado do núcleo orgânico ao mesmo tempo que provoca uma redistribuição do seu poder social em benefício do proletariado periférico e semiperiférico. Tais considerações feitas, no que concerne ao Brasil, o que o modelo arrighiano ensina? Se tomarmos as intervenções públicas mais sistematizadas do sociólogo FHC, podemos observar que seu prognóstico otimista do governo FHC assenta-se em três premissas diretamente relacionadas aos três andares estudados. FHC acredita 1) que a economia mundial está entrando em um novo ciclo longo de desenvolvimento econômico; 2) que as economias semiperiféricas não têm o seu destino selado, podendo aproveitar as oportunidades para uma inserção muito vantajosa na economia mundial e diminuir a distância que as separa do núcleo orgânico; 3) que uma inserção desse tipo poderá representar ganhos para todas as camadas sociais, particularmente para os trabalhadores. O sociólogo Giovanni Arrighi diria o seguinte: 1) embora a fase depressiva do último ciclo econômico esteja parcialmente superada e o mundo esteja em fase de ajustes institucionais importantes, não é absolutamente certo que o ímpeto econômico do Leste asiático seja suficiente para tirar toda economia mundial do presente impasse, e a chamada retomada americana, eu acrescentaria, parece também não possuir tal força; 2) mas, mesmo que a economia mundial entre nos eixos, a lei de ferro que divide o mundo em periferia, semiperiferia e núcleo orgânico continua em pleno vigor. O modelo de Arrighi não exclui a possibilidade de mobilidade ascendente e descendente de países semiperiféricos isoladamente considerados. Contudo o que a experiência do pós-guerra mostra é que os casos de mobilidade são raríssimos, sendo que a expressão "milagre econômico" só cabe para descrever a trajetória japonesa, cuja arrancada está associada à revolução organizacional que introduziu o sistema de subcontratação ou acumulação flexível. Ora, o governo FHC mais copia do que cria, combinando voluntarismo mimético internacional com tom professoral doméstico; 3) por fim, se, por uma conjuntura favorável dos astros, o cálculo presidencial até aqui desse certo, o que o modelo arrighiano sugere é que, ainda assim, na atual conjuntura, isso não representaria uma reversão da tendência do aumento da penúria do proletariado mundial, mesmo dos países economicamente dinamizados pelo processo. Arrighi ou FHC? Os dois sociólogos são suficientemente inteligentes para saber que seus prognósticos são apostas que podem ser derrotadas pela história. O problema é que um deles é presidente da República e não lhe cabe fazer apostas sem as devidas salvaguardas sociais que, hoje, se resumem a uma coisa: o fortalecimento da democracia. Pessoalmente, não vejo uma única instituição ou princípio, de cuja força depende a vitalidade da democracia, sair revigorados da era FHC, sejam os partidos, a divisão de poderes, os sindicatos, a sociedade civil etc. A não ser que se confunda, como quer o presidente, sociedade civil e mercado (pobre Gramsci!). P.S. Este artigo é uma versão modificada do prefácio ao livro "A Ilusão do Desenvolvimento", de Giovanni Arrighi, lançado pela Coleção "Zero à Esquerda" da Editora Vozes. Foi escrito em setembro deste ano, portanto, antes do crash das Bolsas, com o intuito de demonstrar a oportunidade da publicação dos ensaios de Arrighi para compreender a atual conjuntura política brasileira. No embate entre FHC x Arrighi, o recente golpe no Plano Real representa, para os otimistas, uma simples vitória por pontos nos primeiros "rounds" do combate, enquanto, para os pessimistas, trata-se de um verdadeiro "knock out". Ninguém no governo, contudo, deixa de reconhecer o abalo que ele provoca nas formulações do sociólogo-presidente. Ele próprio parece reconhecê-lo ao iniciar as articulações em torno de sua possível candidatura à Secretário Geral da ONU. Se, do ponto de vista material, tudo sugere a impossibilidade de chegarmos ao Primeiro Mundo, talvez do ponto de vista simbólico a operação seja possível, desde que se estabeleça a mesma confusão de que Fernando Henrique e o Brasil sejam a mesma coisa. Fernando Haddad, mestre em economia e doutor em filosofia, é professor de ciência política da USP. Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1997, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 30/11/97 <<...>> <<...>> <<...>> 30Nov1997 BRASIL: Nova coleção traz temas políticos. São Paulo, domingo, 30 de novembro de 1997. da Redação A Editora Vozes está lançando neste mês os primeiros volumes da coleção "Zero à Esquerda", coordenada pelos professores Paulo Eduardo Arantes e Iná Camargo Costa. O texto reproduzido nesta página é uma versão modificada do prefácio de "A Ilusão do Desenvolvimento" (371 págs., R$ 31,00), do economista italiano Giovanni Arrighi, um dos títulos publicados. Os demais volumes editados neste mês são: "Os Últimos Combates" (394 págs., R$ 32,00), de Robert Kurz - Coletânea de conferências e artigos (inclusive os publicados na Folha) do pensador marxista alemão Robert Kurz. "Diccionario de Bolso" (83 págs., R$ 7,00), de Paulo Eduardo Arantes - Crítica e sátira à vida intelectual e política brasileira atual, a partir de citações de pensadores, jornalistas e políticos extraídas de jornais, além de definições e aforismos do autor. "Os Moedeiros Falsos" (239 págs., R$ 19,00), de José Luís Fiori - Reúne uma série de artigos em que o economista aborda questões como o conceito de "governabilidade" e a guinada neoliberal dos países latino-americanos nos anos 90. "Poder e Dinheiro" (410 págs., R$ 34,00) - Organizado por Maria da Conceição Tavares e José Luís Fiori, ensaístas analisam os efeitos da globalização sobre as economias nacionais, sobretudo de países periféricos. Na coleção, serão lançados também "Metamorfoses da Questão Social", de Robert Castel, e "Terrenos Vulcânicos", de Dolf Oehler, entre outros. Copyright Empresa Folha da Manhã S/A. Todos os direitos reservados. É proibida a reprodução do conteúdo desta página em qualquer meio de comunicação, eletrônico ou impresso, sem autorização escrita da. Folha de S. Paulo is the leading newspaper in Brazil. All content in Portuguese and totally available daily at the on-line edition at www2.uol.com.br/fsp. For further information please write to agencom@uol.com.br (c) C Copyright 1997, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. Sources:FOLHA DE S.PAULO 30/11/97 <<...>> <<...>> <<...>> 05Apr1997 ITALIA: Il novecento? nato - a Londra muore a est. Di Giovanni Vigo. Secolo breve o secolo lungo, il Novecento? Per Eric Hobsbawm il Novecento é tutto condensato negli eventi che si sono consumati fra il 28 luglio 1914 (giorno in cui ebbe inizio la prima guerra mondiale) e il 31 dicembre 1991, quando dal pennone piu' alto del Cremlino venne definitivamente ammainata la bandiera dell'Unione Sovietica. Per Giovanni Arrighi, invece, il XX secolo era giá iniziato nell'ultimo quarto dell'Ottocento ed é probabilmente destinato a superare la soglia del terzo millennio (Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, 509 pagine, 62.000 lire). A queste conclusioni Arrighi é giunto alla fine di un lungo percorso. Cercando di far luce sul ruolo del capitale finanziario in questo scorcio di secolo, si é chiesto se il predominio degli Stati Uniti avesse in sé qualcosa di irripetibile, oppure se non si trattasse di un'esperienza giá sperimentata in passato. Percorrendo a ritroso i secoli dell'etá moderna attraverso la grandiosa ricostruzione compiuta da Fernand Braudel in Civiltá materiale, economia e capitalismo, é giunto alla conclusione che il secolo americano altro non é se non l'ultima fase di un lungo ciclo aperto nel Quattrocento dai genovesi e proseguito poi dagli olandesi e dagli inglesi. In estrema sintesi l'argomentazione di Arrighi é la seguente: in ciascuna fase di sviluppo del capitalismo, lo stadio della maturitá coincide con il prevalere delle transazioni finanziarie rispetto alle transazioni commerciali che caratterizzano invece lo stadio iniziale. Questo modello si adatta perfettamente al ciclo genovese che domino' i secoli XV e XVI, a quello olandese che raggiunse l'apogeo tra Sei e Settecento, a quello britannico che si chiuse in maniera traumatica con la prima guerra mondiale, ma che aveva giá mostrato vistose incrinature nei decenni precedenti. In questo dopoguerra, all'apice del suo successo, l'economia americana ha subito una profonda metamorfosi in senso finanziario e, se l'esperienza insegna qualcosa, cio' vuol dire che gli Stati Uniti si apprestano a cedere il passo a qualche altra potenza. A meno che l'America non riesca ad "appropriarsi, attraverso la forza, l'astuzia o la persuasione, dei capitali eccedenti che si accumulano nei nuovi centri". In questo caso verrebbe meno l'anima stessa del capitalismo, quella capacitá di competizione e di adattamento che aveva stupito Fernand Braudel. L'alternativa che Arrighi intravede si colloca dall'altra parte dell'emisfero: "Il capitale dell'Asia orientale potrebbe giungere a occupare una posizione dominante nei processi sistemici di accumulazione... La storia del capitalismo dunque continuerebbe, ma in condizioni radicalmente diverse da quelle esistite a partire dalla formazione del moderno sistema interstatale". Un epilogo un po' deludente se commisurato alla dimensione delle sfide che ci squaderna davanti agli occhi il terzo millennio. Oggi l'interrogativo cruciale non é piu' quello di Schumpeter ("puo' il capitalismo sopravvivere al suo successo?") bensi' quello, assai piu' drammatico, riguardante le possibilitá della moderna civiltá industriale di conquistare l'intero pianeta diffondendo, insieme al benessere, la democrazia e la libertá. Senza dimenticare che il nodo decisivo resta quello della redistribuzione delle risorse in senso piu' egualitario. (c) 1997 Il Mondo. Sources:ITALIAN LANGUAGE IL MONDO 5/4/97 P55 <<...>> <<...>> <<...>> 25Oct1996 ITALIA: CIOCCA (BANKITALIA), CRESCITA SOLO SE I TASSI CALANO. (ANSA) - MILANO, 25 ottobre - Una crescita economica "stabile, sostenibile, sostenuta non potra' aversi se il tasso reale d' interesse a lungo termine continuera' a superare del 100 per cento e piu' il ritmo d'incremento del prodotto potenziale delle economie industriali": e' quanto scrive il responsabile della ricerca economica di Banca d'Italia, Pierluigi Ciocca, nell' intervento previsto per la conferenza internazionale della Fondazione Eni Enrico Mattei in corso in questi giorni a Milano. Ciocca non ha partecipato alla conferenza, ma il suo intervento e' stato letto oggi dal sociologo Giovanni Arrighi. "Oggi, i tassi reali sono sul quattro-cinque per cento - spiega Ciocca - il ritmo di incremento del 'potential output' sul 2,5 per cento". E, per l'economista, "il circolo vizioso" puo' essere spezzato solo "promuovendo una discesa non inflazionistica dei tassi reali di interesse". Per ridurre il tasso reale di interesse "occorre rendere le aspettative della finanza meno 'bearish', meno ribassiste - scrive Ciocca - La politica economica che puo' correggere in meglio le attese deve essere, pur essa, non solo nazionale, ma anche sovranazionale, quanto meno attraverso una piu' salda coordinazione delle politiche economiche e monetarie dei principali Paesi". Per quanto riguarda l'Italia, Ciocca definisce "interessante" il caso italiano degli "ultimi due anni, di disinflazione con perdite di produzione contenute". CB. (c) 1996 ANSA. Sources:ITALIAN LANGUAGE AGENZIA NAZIONALE STAMPA ASSOCIATA (ITALIAN) 25/10/96 <<...>> <<...>> <<...>>
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