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The world press on Giovanni Arrighi
by Tausch, Arno
20 June 2001 07:29 UTC
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reuters archive, last 10 years. some interesting stuff. selection is of
course again reuters', not mine!

Giovanni Arrighi's impact on the world press debate has been present in many
countries as well, especially in Italy and Brazil.

Since I permitted the system to retrieve articles in other languages as
well, there are several articles this time in Italian, Spanish and
Portuguese!

enjoy the reading arno tausch


27May2001 ESPAÑA: Charlas, cuentacuentos y exposiciones en la Semana
solidaria. 
Por S.MORENO.
Bajo el lema Inmigración, Cooperación y Desarrollo, el Consejo Local de
Cooperación y Derechos Humanos, creado hace un año para sensibilizar a los
vecinos de la pobreza y marginalidad que vive el tercer mundo, ha organizado
la segunda Semana de la Solidaridad con los Pueblos, con dos millones y
medio de presupuesto A partir de mañana, los alcalaínos podrán participar en
varias actividades solidarias. Conciertos de música étnica, cuentacuentos,
exposiciones y mesas redondas en la biblioteca Cardenal Cisneros serán
algunas de ellas. Los debates y coloquios en los que participarán ONG del
municipio y especialistas en inmigración estarán centrados en las causas de
este fenómeno y, en concreto, de la mujer inmigrante. El prestigioso
profesor Giovanni Arrighi ofrecerá una charla sobre la globalización en la
Cámara de Comercio el jueves, titulada Tercer Mundo, subdesarrollo y
justicia. El pregón se hará coincidir con el fin de semana, y correrá a
cargo del alcalaíno Miguel Ángel Pérez, presidente de Médicos Sin Fronteras.
Ayuda en Acción se ha encargado de organizar la exposición fotográfica La
infancia en la India y Nepal. Durante los próximos siete días, cada ONG con
sede en el municipio tratará de promocionarse y concienciar de las
necesidades que tienen otros pueblos desde las casetas informativas que se
instalarán en la plaza de Cervantes. En ellas se expondrán y venderán
objetos artesanos, material bibliográfico y publicaciones de Unicef, Ayuda
en Acción, Sodepaz, Acción contra el Hambre, entre otras. Los próximos dos
días se celebrará una actividad que no se realizó en la primera semana
solidaria, en noviembre del pasado año. Miembros del Consejo de Cooperación
con su responsable municipal a la cabeza, el primer teniente de alcalde,
Luis Suárez Machota, ofrecerán charlas de inmigración a los escolares. Los
centros seleccionados han sido el Infanta Catalina, Nebrija y Antonio
Machado. La semana solidaria también dedicará un espacio al cine y a la
gastronomía.
(c) Copyright Ediciones Periodísticas S.L.
http://www.diario16.es. 
Sources:DIARIO 16 27/05/2001 
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05May2001 CHINA: EDUCATION LISTINGS. 
Send listings to Tracey Duggan, Education, 16/F, Somerset House, Taikoo
Place, 979 King's Road, Quarry Bay. Fax: 2811 1048, e-mail:
education@scmp.com 

FAMILIES
Adventure in Rainbowland: sponsored by the Shell Better Environment Awards
Scheme. Performances by students and graduates of the Academy for Performing
Arts with puppets representing sea creatures. Sunshine City Plaza, Ma On
Shan, tomorrow 2.30pm and 3.30pm, and Hong Kong Cultural Centre, Tsim Sha
Tsui, May 12 4pm. Tel 2584 8500.
SCHOOLS
International Conference on Multiple Intelligences - Association for
Supervision and Curriculum Development: presenter Dr Thomas Hoerr. Hong Kong
International School, Black Box Theatre, 700 Tai Tam Reservoir Road, Tai
Tam, Friday and May 12 9am-4pm. Discount registration price $2,200. For
information and registration, go to www.ascd.org.
Dulwich International College (Phuket): headmaster Christopher Charleson
will be available to meet parents. Excelsior Hotel, Tuesday to Thursday. Tel
2894 8888 or e-mail ccharleson@dulwich.ac.th.
HIGHER
Seminar - A Simple Arithmetic for Fractions with Applications to Classical
Physics, Geometric Modelling and Computer Graphics: speaker Professor Ron
Goldman, Rice University, Houston, United States. Organised by the
Department of Computer Science. University of Science and Technology, Leung
Yat Sing Lecture Theatre, Academic Concourse, Monday 4pm-5pm. Tel 2358 7008.
Seminar - Some Observations on Traditional Chinese Environmental Problems
and Management: speaker Professor Lui Yuen-chong. Organised by the Centre of
Urban Planning and Environmental Management. University of Hong Kong, Room
829, 8/F Knowles Building, Wednesday 12.45pm-2pm. Tel 2859 2721. Seminar -
Global Inequalities and National Development, Pernicious Postulates,
Unsolved Puzzles: speaker Professor Giovanni Arrighi, Johns Hopkins
University. organised by the Centre of Asian Studies. University of Hong
Kong, the Reading Room, Tang Chi Ngong Building, Friday 4.30pm. Tel 2859
2460. Seminar - Biometric Solutions for e and mCommerce: speaker Mac
McGolpin, AsiaWebCo Ltd. Organised by the Telecommunications Research
Project. University of Hong Kong, Centre of Asian Studies, Reading Room,
Tang Chi Ngong Building, Thursday 12.30pm-2pm. Tel 2859 1919 or e-mail
jcgwan@hkucc.hku.hk. Seminar - The Role of Hong Kong Entrepreneurs in the
Development of Asian Malls in Canada: speaker Professor David Chuenyan Lai,
University of Victoria, Canada. Organised by the Centre of Urban Planning
and Environmental Management. University of Hong Kong, Room 820, 8/F Knowles
Building, Thursday 6pm-7.15pm. For more details, tel 2859 2721. Seminar - Is
Indonesia Breaking Up?: speaker Vaudine England, journalist. Centre of Asian
Studies, University of Hong Kong, the Reading Room, Tang Chi Ngong Building,
Room G-4. Thursday 4.30pm. Tel 2859 2460.
EXHIBITION
Beautiful Crystal Specimens from China and Cibachrome Photographs of
Minerals: City University Gallery, 4/F Amenities Building, 10am-7pm daily.
Ends June 10.

LOOKING AHEAD
Spring Workshop 2001 - Hong Kong Public Policy and Women: organised by the
Centre of Asian Studies and Women's Research Centre. University of Hong
Kong, Tang Chi Ngong Building, May 12 9am-1pm. Tel 2859 2460 or e-mail
tmyip@hku.hk.
Letterland Phonics Education Evening for Parents: speaker Lesley White,
Letterland. Organised by ETC Educational Technology Connection (HK) Ltd.
June 1. Registration required. Tel 2886 0914 or e-mail
info@et.edutechconnect.com.hk. 
Sources:SOUTH CHINA MORNING POST 05/05/2001 
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03May2001 ITALIA: Gaber, tournée in università. 
Di Pierluigi Panza.
Oggi il primo incontro con gli studenti dell'ateneo di via Sarfatti. Poi
andrà a Firenze, Torino, Mestre, Napoli e Genova Gaber, tournée in
università Il cantautore in Bocconi racconterà il Sessantotto alla
generazione del piercing e dei tatuaggi Il signor G. torna a parlare in
pubblico a Milano dopo decenni. Oggi, alle 13, Giorgio Gaber incontrerà gli
studenti nell'aula Magna della Bocconi. È la prima di una serie di tappe di
una singolare tournée, fatta solo di parole, che il cantautore e attore
milanese terrà in accordo con le università: il 10 maggio sarà al Teatro
Puccini di Firenze, il 16 maggio al Dams di Torino; il 21 maggio al Teatro
del Parco di Mestre per gli studenti dell'ateneo Cà Foscari, il 28 maggio al
Teatro Diana di Napoli e il 3 giugno, infine, al Palazzo Ducale di Genova.
Non che il signor G., negli ultimi anni, non abbia mai parlato: lo aveva
fatto anche nella sua ultima apparizione in teatro a Milano, nel febbraio
del '98 allo Smeraldo, presentando «Una idiozia conquistata a fatica». Solo
che ora, dopo esser tornato a registrare un disco in studio, con quattro
pezzi inediti e una decina di arrangiamenti di successi degli ultimi anni,
intitolato «La mia generazione ha perso» (quinto in classifica), ha deciso
anche di tornare a parlare al di fuori di concerti e spettacoli teatrali.
Parlare e basta. E il cantautore, dal naso lungo come un burattino e dalla
lingua che enuncia scomode verità, ha deciso di raccontare la sua
generazione alla nuova generazione. Insomma, di raccontare il Sessantotto e
dintorni ai ragazzi del piercing e dei tatuaggi. Parlare di musica, di
letteratura, di società, ma non esplicitamente di politica contemporanea
(almeno non è prevista). Gaber ha più volte affermato di non recarsi a
votare da anni. E del resto lui, punzecchiatore da sinistra della Sinistra,
si trova nella condizione di essere consorte della berlusconiana presidente
provinciale Ombretta Colli. La sua, su Berlusconi, l'ha comunque già detta:
«Non ho paura di Berlusconi in sé; ho paura di Berlusconi in me». Il 25
gennaio di due anni fa, in occasione del suo sessantesimo compleanno, Gaber
dichiarò anche di non amare i giovani: «Sono conciati male, per colpa
nostra». Ovvero per «colpa» di una generazione che «non ha saputo dir loro
chi sono e cosa devono fare». Una generazione, la sua, che, afferma oggi il
signor G., «con generoso slancio utopistico, a volte velleitario e
contraddittorio, ha creduto in valori e progetti dei quali ben poco si è
realizzato» e, forse per questo, da lui definita perdente. «Ma anche una
generazione - aggiunge - che, nonostante tutto rilancia la sua ironia, la
sua forza vitale e la sua incrollabile fede laica nelle possibilità di
riscatto dell'individuo». Gaber, dunque, rimpiange «le strade, le piazze
gremite/ di gente appassionata / sicura di ridare un senso alla propria
vita», come scrive in «La razza in estinzione»; una razza di cui, con quella
utopia mista a disillusione che lo contraddistingue, cercherà di trasmettere
almeno le migliori qualità alla generazione degli universitari d'oggi. Che,
quanto a premesse, ha da invidiare alla sua quella vitalità e quella voglia
di cambiare il mondo che Gaber ha riconosciuto in un «maestro» come Dario
Fo, in un economista cosmopolita come Giovanni Arrighi, in un filosofo come
Andrea Madera, in un freak diventato arancione come Andrea Valcarenghi e in
tutti quegli intelletuali del Gruppo Gramsci per i quali smise di
frequentare Mina e Celentano. Adesso tutti e tre ritornano: il guru da prima
serata Adriano Celentano con «125 milioni di caz..te», Mina con la sua voce
e i suoi chili, Gaber con l'emozione di sentirsi perdente ma anche,
evidentemente, con la voglia di testimoniare qualcosa ai giovani. Solo che
lui, il «menestrello dell'era atomica» che fece impazzire cantando «Porta
Romana», motivo che i ragazzi ancora intonano senza sapere che sia suo,
stupisce di nuovo per la scelta del pulpito dal quale dire la sua: le
università e, per prima, la Bocconi. Vabbé che è un ragioniere diplomato al
Cattaneo e «sciur dottor» lo sarebbe diventato se non si fosse messo a
cantare «La ballata del Cerruti», suo primo grande successo legato a Milano
scritto nel '61 con Umberto Simonetta. Ma certo Gaber, 25 anni fa, parlava
davanti a 100mila ragazzi al Parco Lambro per il festival di «Re nudo»!
Oggi, dopo gli anni passati con Grassi e Strehler al Piccolo Teatro, dopo il
successo di «Aspettando Godot» al Carcano con l'amicone Jannacci e dopo le
50 repliche a Milano del Teatro Canzone (che segnò nel '92 il suo ritorno
alla musica), lo ritroviamo nella culla dell'alta finanza. Sarà dunque
ancora più interessante sentire cosa Gaber avrà da dire a dei ragazzi che
amano gli Stati Uniti e che aspirano a diventare i signori del mercato. Lui
- l'ha più volte dichiarato - non vede di buon occhio «la crescente
globalizzazione che schiaccia l'individuo» e ritiene che «le coscienze
vengono annientate dal mercato». Pierluigi Panza.

(c) CORRIERE DELLA SERA. 
Sources:CORRIERE DELLA SERA (ITALIAN LANGUAGE) 03/05/2001 P54 
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06Apr2001 ITALIA: GABER L'emozione di sentirsi perdente. 
«Il 13 maggio mia moglie non è candidata. Posso tornare ad astenermi»
«Dice un mio amico: non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in
me»ANTEPRIMA Parla il cantautore che lancia un disco sulle sconfitte della
sua generazione: «Sento il vuoto di una classe che non ha nulla da dire»
GABER L'emozione di sentirsi perdente di GAD LERNER La disarmante sincerità
di Giorgio Gaber, l'uomo che negli anni Settanta ci fece sobbalzare con la
rima fra gelato e proletariato, e che trent'anni dopo torna a produrre un
disco per annunciare La mia generazione ha perso, se ne sta rannicchiata in
un villino circondato dagli alberghi a una stella delle prostitute
latino-americane, nella sua Milano piccolo borghese di sempre, solo un pò
più malinconica e arrabbiata, tra Lambrate e Città Studi. Non ce n'è un
altro al mondo che ti possa raccontare nello stesso tono partecipe lo Studio
Uno di Mina e la new left americana, il clan di Celentano e la scuola di
Francoforte: perché Gaber nel Sessantotto andava in Statale a prendere
l'Ombretta Colli che studiava il russo e il cinese, però ci andava con la
Jaguar e, da trentenne ganassa qual era, si lasciò incantare da quei giovani
ribelli indifferenti alla sua automobile e alla sua celebrità televisiva.
Nel nuovo disco la sua generazione che ha perso fa rima con le idee del
secolo scorso ma anche con la possibilità di raccontarle ai figli senza
rimorso. A 62 anni sente «un vuoto totale», intitola l'ultimo canto a La
razza in estinzione, rimpiange «le strade, le piazze gremite/ di gente
appassionata/ sicura di ridare un senso alla propria vita/ ma ormai son
tutte cose del secolo scorso/ la mia generazione ha perso». E allora chiude
il cerchio tornando perfino in televisione, ma una volta soltanto, fianco a
fianco con il Molleggiato, perché è giusto rendere omaggio alle sue origini
che non erano certo quelle di un intellettuale d'élite. Proprio lui, il
maestro autodidatta che invano ci ha proposto l'esempio di una serena
appartatezza dallo star-system, costringendoci a riempire i teatri se
volevamo scrutarne la metamorfosi, e dividerci, e arrabbiarci, e accusarlo
di qualunquismo per via degli umori inconfessabili che snidava in noi. Non
fosse Gaber, lo liquideremmo come un furbo di tre cotte, vista l'incredibile
trasversalità dei personaggi riuniti nel libretto del cd, ciascuno chiamato
a commentare una canzone, edita o inedita: da Fausto Bertinotti a Francesco
Alberoni; da Luigi Giussani a Antonio Ricci che lo definisce «veramente
buono» e «veramente tollerante». La prova? «Non ha ancora strangolato la
moglie Ombretta Colli di Forza Italia». Figuriamoci, lui, che non votava più
dal 1975, per amore di Ombretta si è trascinato fino al seggio elettorale:
«Fortunatamente il 13 maggio non è candidata, posso tornare all'astensione.
Come dice il mio amico Giampiero Alloisio, io non temo Berlusconi in sé,
temo Berlusconi in me». Invece Gaber non è affatto un furbo. Perché se è
vero che don Giussani ha citato lungamente la canzone L'appartenenza negli
esercizi spirituali di Comunione e liberazione («Sarei certo di cambiare la
mia vita/ se potessi cominciare/ a dire noi»), non per questo lui rinuncia
all'invettiva: «e vedo anche una Chiesa/ che incalza più che mai/ io vorrei
che sprofondasse/ con tutti i Papi e i Giubilei». Seduto sul divano con
l'eterno girocollo blu e le eterne Clarks ai piedi, è il primo a stupirsi:
«Strana gente, gente viva questi ciellini. Sono anche venuti qui a casa per
discutere con me dopo lo spettacolo, una volta lo facevano i giovani di
sinistra».
La sinistra che continuamente l'ha attratto e deluso («non si sa se la
fortuna sia di destra/ la sfiga è sempre di sinistra») non è certo quella di
D'Alema e Veltroni: «Nel Sessantotto loro erano la Fgci, erano i nemici». La
rivolta libertaria, la libertà come partecipazione, già col movimento del
'77 per Gaber ripiegava nella pretesa deludente di soddisfare bisogni
mercificati, e oggi nei centri sociali esprime un antagonismo che è solo
rabbia. Per questo a teatro l'ha fustigata e sfottuta con amore, l'ha
costretta a guardarsi dentro, rimettendo - come le sue canzoni - la persona
al primo posto. «Una volta ho domandato a Sofri: ma tu ci credevi veramente
alla rivoluzione? E lui: forse non ce lo siamo mai chiesti, o avevamo paura
di chiedercelo». Così, ogni estate, in Toscana, si mette lì con l'amico
pittore Sandro Luporini a scrivere canzoni e a misurare la miseria dei
luoghi comuni e delle mode culturali. «Sì, quella generazione ha avuto la
forza di coinvolgere uno come me, il chitarrista di Celentano divenuto
cantante solo perché lui arrivava in ritardo e l'orchestra aveva bisogno di
una voce con cui provare». Intellettuali come Nanni Ricordi e Dario Fo mi
hanno fatto venire la voglia di pensare, di trasformarmi. Mi hanno fatto
conoscere un economista cosmopolita come Giovanni Arrighi, un militante
filosofo come Romano Madera, un vero freak come Andrea Valcarenghi. Ecco,
sono i talenti di allora quelli che hanno perso insieme a me». È il
Sessantotto dei Fischer e dei Cohn-Bendit accusati di terrorismo e
pedofilia, è il Sessantanove di Sofri finito dietro le sbarre di una
prigione. «Ora sento il grande vuoto, vedo una classe di intellettuali che
non ha più niente da dire dopo decenni di sviluppo senza progresso. Hai
voglia a ripetere che bisogna ascoltare i figli, parlargli: ma cosa cazzo
gli diciamo?». Il prodotto della metamorfosi-Gaber è un uomo di teatro: «Se
Mina è uno strumento meraviglioso, un'ugola straordinaria, io sono un attore
che canta amplificando l'emozione con la musica». Una mutazione che proprio
da Mina incominciò, per giungere ai concerti di autofinanziamento militante
e in seguito all'encomiabile sforzo di conservare, se non altro, il buon
gusto. «Fu proprio in seguito a una lunga tournée teatrale in cui facevo da
spalla a Mina che nel 1970 decisi di scomparire dalla televisione e dal
mercato discografico. Ho sentito il rapporto fisico col pubblico, la sfida
di inventare canzoni che la gente in teatro ascolta per la prima volta e
subito devono lasciare il segno». In quei teatri si sono consumate molte
crisi esistenziali della militanza. La demolizione del conformismo di
sinistra, del politically correct, della solidarietà pelosa. Se uno sul
palco, con voce grave, ti sfotte cantando che il collant è di sinistra
mentre il reggicalze è di destra, e che l'ideologia è facile a sciogliersi
come uno shampoo, ti viene il dubbio che anche il potere dei più buoni sia
solo una grande ipocrisia. Tanto più se te lo dice senza cinismo, col
tormento di chi partecipa delle tue passioni. E così pure tu ti senti obeso,
come nella canzone ancora inedita, a furia di mangiare idee, opinioni,
soldi, sentimenti, fino a «un gonfiarsi disumano». Se poi grida che i gay
«han tutte le ragioni/ ma io non riesco a tollerare/ le loro esibizioni»
magari ti scandalizzi, ma senti che è turbato anche lui. Gaber lo ammette:
«A un certo punto io mi sono innamorato di quella razza lì, degli
intellettuali. Ho smesso di frequentare Mina e Celentano per frequentare, al
posto loro, il Gruppo Gramsci, finché s'è sciolto come avrebbe fatto tre
anni dopo Lotta continua. Mi hanno fatto orrore gli autonomi, mi ha lasciato
indifferente la svolta mistica arancione del fondatore di Re Nudo, Andrea
Valcarenghi, che pure resta un amico. Ricordo Dalia ancora bambina che un
giorno mi chiama, "papà, c'è Andrea al telefono, ma deve essere impazzito
perché dice di chiamarsi Majid". Ecco, con tutto questo, io mi sento ancor
oggi un privilegiato per il fatto di essere rimasto fuori dall'orgia
televisiva». Ha preferito costruirsi un popolo di seguaci, accomunato da una
sconfitta da assaporare ciascuno a casa propria, magari ascoltando un cd.
Il Cd di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, «La mia generazione ha perso»,
uscirà il 14 aprile per la CGD.

(c) CORRIERE DELLA SERA. 
Sources:CORRIERE DELLA SERA (ITALIAN LANGUAGE) 06/04/2001 P35 
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11Apr2000 ESPAÑA: Agenda Informativa de Europa Press del día 11 de abril (y
2). 
MADRID, 11 de Abril (Europa Press)
Temas más importantes que configuran la AGENDA de actos e informaciones
previstas para hoy por EUROPA PRESS, agrupadas en las secciones de "Cultura
y Sociedad" y "Efemérides"

CULTURA Y SOCIEDAD

- Miguel Angel Cortés inaugura en México una exposición sobre Luis Buñuel.
- 9.15 horas: Annie Brooking estará en el Primer Congreso Internacional de
Gestión del Conocimiento, en el Meliá Avenida de América. A las 18.30 estará
Leif Edvinson.
- 9.30 horas: Dentro del foro "El futuro habla español", intervienen Vítor
García de la concha. A las 11.00 lo hará Fernando Rodriguez Lafuente y, a
las 12.00, Abel Matutes. En la Casa de América.
- 9.30 horas: Enrique Castellón inaugura los "Encuentros sobre Vivienda y
Consumo", en el Ministerio de Sanidad y Consumo. A las 10.00 intervendrá
Fernando Nasarre.
- 10.00 horas: Presentación del estudio "Diez años de comercio exterior del
libro en España", en Cea Bermúdez, 44.
- 11.30 horas: Rueda de prensa de Carlos Muñoz Repiso, para presentar la
nueva campaña divulgativa de la Dirección General de Tráfico, en Josefa
Valcárcel, 28.
- 11.30 horas: Presentación de la película "Pásate a la pasta" de Antonello
Dedo, con la presencia de los actores Claudia Gerini, Ana Risueño y Pere
Ponce, en los Cines Princesa de Madrid.
- 11.30 horas: Rueda de prensa para explicar las consecuencias del
expediente de oficio abierto por la Comisión Europea por las deficiencias en
la red de ZEPAs. También se presentará el libro de las IBAs Europeas,
elaborado pro BirdLife, en Melquiades Biencinto, 34.
- 11.30 horas: Cinco monjes tibetanos, enviados por el Dalai Lama, informan
en rueda de prensa, de las actividades que van a realizar en Navarra, en Río
Salado, 5. Pamplona.
- 11.45 horas: Presentación del código de buenas prácticas ambientales
municipales, en Cuesta de Santo Domingo, 5-7.
- 12.00 horas: Presentación de la ópera "La sonámbula", en el Teatro Real.
- 12.30 horas: Rueda de prensa con motivo de la rescisión del contrato del
doctor Vicente Carreño realizado por la Fundación Jiménez Díaz y sus
repercusiones en asistencia e investigación en Hepatología, en Guzmán el
Bueno, 72.
- 12.30 horas: Rueda de prensa de Jorge Loor, portavoz de la Coordinadora de
Movimientos Sociales de Ecuador, en Montesquinza, 41.
- 13.00 horas: Presentación de la exposición "Construir desde el interior.
Un viaje imaginario a través de la poesía de los espacios construidos", en
la Arquería de los Nuevos Ministerios. Será inaugurada a las 20.00 horas.
- 13.00 horas: Rueda de prensa de la exposición sobre la vida y la obra de
María Zambrano, en el Cículo de Bellas Artes. A las 2'0.00 tendrá lugar una
mesa redonda sobre el mismo tema.
- 13.00 horas: Presentación de la exposición "El enigma de lo cotidiano". A
las 19.30 se desarrollará una mesa redonda y, a las 20.30, tendrá lugar la
inauguración. En la Casa de América.
- 14.00 horas: Presentación de la nueva colección "Planeta Singular", en el
Restaurante Lhardy.
- 19.00 horas: Debate dentro del Foro Científico: ?Contaminación Medio
Ambiente?. Respuestas de la Química, en Príncipe de Vergara, 140.
- 19.30 horas: Conferencia de Antonio Lamena sobre "Enclave Urbano del Museo
del Ejército", en Gran Vía, 13.
- 19.30 horas: Presentación del libro ganador del Premio Primavera de Novela
2000, "Amphitryon", de Ignacio Padilla, en el Círculo de Bellas Artes.
Actuará Angels Gonyalons y su compañía. A las 12.30 el autor dará una rueda
de prensa.
- 19.30 horas: Expertos en nutrición y psicología debaten en el Palacio
Euskalduna de Bilbao sobre la anorexia.
- 19.30 horas: Debate de Almudena Grandes y Joaquín Leguina dentro del ciclo
"Literatura y compromiso social", en Azcona, 53.
- 19.30 horas: Inauguración de la exposición Bartolomé Sureda (1769-1851:
Arte e industria en la Ilustración tardía, en el Museo Municipal de Madrid.
Fuencarral, 78.
- 19.30 horas: Mesa redonda sobre "Literatura Ecuatoriana" con Eduardo
Becerra, Javier Vásconez y Mayra Estévez, en la Casa de América.
- 19.30 horas: Conferencias dentro del seminario sobre "Pensar la Religión",
en la Fundación Juan March, Castelló, 77.
- 19.30 horas: Concierto titulado "Modus Novus", dirigido por José de
Eusebio, en el Auditorio Nacional de Música.
- 19.45 horas: Romay Beccaría asiste a la presentación del libro "El arco
románico en el Camino de Santiago", y recital de arpa de música medieval a
cargo de María Rosa Calvo-Manzano, en Casado del Alisal, 8.
- 20.00 horas: Conferencia de Paulino Castañedo Delgado sobre "América y la
ilustración europea", en Alcalá, 15.
- 20.00 horas: Ludolfo Paramio y Felipe Ruíz Martín presentan la obra de
Giovanni Arrighi "El largo siglo XX", en Preciados, 28.
- 20.00 horas: Presentación del Año Jubilar Lebaniego, 2000-2001, por el
consejero de Cultura de Cantabria, José Antonio Cagigas, en la Casa de
Cantabria, Pío Baroja s/n.
- 20.00 horas: Presentación del libro de Manuel Hidalgo "Días de agosto", en
O'Donnell, 10.
- 20.00 horas: Conferencia de Jesús Torbado, titulada "Tabaco, sabor a
tolerancia", en Almirante, 12.
- 20.00 horas: Inauguración de la exposición "Partituras" de Eduardo Bonati
y concierto del compositor Adolfo Núñez, en Augusto Figueroa, 99.
- 20.00 horas: Presentación de la nueva revista de naturaleza, denominada
"Scenes of The World", en Alcalá, 141.
- 20.30 horas: Dentro del X Festival de Arte Sacro de la Comunidad de
Madrid, se presenta la ópera a capella titulada "La trinidad", a cargo del
Coro Filarmónico de Sochi, en el Círculo de Bellas Artes.
- 20.30 horas: La Fundación César Manrique presenta el dictamen jurídico
"Revisión del PIOT: cuestiones formales y de fondo", de José Suay, en
Lanzarote.
- 21.00 horas: Acto de la ONCE con motivo de la celebración de las sextas
elecciones internas de la Organización, en el Paseo de la Habana, 208.
- Nacha Guevara actúa en el Círculo de Bellas Artes de Madrid.
- María Creuza actúa en Galileo Galilei.
- El Cometa Errante actúa en la sala Clamores.

EFEMERIDES

- El historiador Raymond Carr, cumple 81 años.
- Álex Corretja, tenista, cumple 26 años.
- José María Ruiz Mateos, cumple 69 años.
- La cantante Lisa Stansfield, cumple 34 años.
- Juan Carlos Arteche, ex jugador del Atlético de Madrid, cumple 43 años.
- Jesús Seba, futbolista, cumple 26 años.
(c) Europa Press 2000. 
Sources:EUROPA PRESS 11/04/2000 
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06Feb2000 BRASIL: Ricardo Musse - O reformismo ontológico do proletariado. 
São Paulo, Domingo, 06 de Fevereiro de 2000
Em "Marxismo sem Utopia", Jacob Gorender revisa as teses do pensador alemão
à luz de questões atuais
especial para a Folha
Sob muitos aspectos, "Marxismo sem Utopia" é um livro notável.
Diferentemente da tradição do marxismo local, não busca adaptar as teorias
de Marx e de seus seguidores à especificidade brasileira nem destacar as
singularidades de nossa formação social (assunto abordado por Gorender em "O
Escravismo Colonial"). Propõe-se a atualizar nada mais nada menos que o
próprio marxismo. Sintoma de maturidade intelectual (do autor e do marxismo
brasileiro), mas também de lucidez diante dos impasses da prática e da
teoria neste fim de século. A flexibilidade, implícita no projeto de revisar
as teses marxistas levando em conta a atual situação do mundo, destoa do
disseminado dogmatismo de teóricos e militantes de esquerda e não deixa de
ser inesperada (apesar de sua trajetória heterodoxa) em um antigo membro do
Comitê Central do PCB. Tampouco é comum - numa época de renegações feitas em
função de expectativas de curto prazo-a atitude de elaborar propostas que
assumidamente só poderão ser vingadas pelas gerações futuras. Por fim, o
leitor haverá de se surpreender com a riqueza enciclopédica do livro.
Encontram-se lá sumariados, com clareza, didatismo e uma espantosa
capacidade de destacar o essencial, as discussões contemporâneas sobre temas
como a história do capitalismo no século 20, da tradição marxista e do
"socialismo real"; a dita globalização e tudo o que afeta a atualidade e o
futuro do mundo do trabalho; a situação presente das classes, dos partidos e
do Estado, bem como suas mútuas relações; as pertinências das teorias de
Marx sobre a extração da mais-valia, da queda tendencial da taxa média de
lucro e das crises de superprodução; a questão da transição e das
características da sociedade socialista etc.

Ciência e utopia
A construção enciclopédica do livro nos esclarece sobre a variante do
marxismo retomada por Gorender. A organização do legado de Marx como um
sistema aberto, atento às discussões internas nos diversos campos do saber,
foi a estratégia utilizada por Friedrich Engels para atualizar o
materialismo histórico após a morte de Marx. Nessa versão, denominada
"socialismo científico", ascendeu ao primeiro plano a dicotomia
ciência/utopia presente já no título e retomada ao longo do livro. No que
tange ao método, Gorender está mais próximo de Eduard Bernstein, um
discípulo de Engels que, levando ao pé da letra a associação entre marxismo
e ciência, não hesitou em adotar como fio a tese de que "Marx desviou-se da
disciplina científica e cedeu a propensões utópicas". A proximidade entre
Bernstein e Gorender, no entanto, é puramente formal. Uma vez que a
convergência entre teoria e prática, método e política é ainda apenas um
ideal, Gorender pôde retomar o mote a partir do qual Bernstein procedeu à
revisão do marxismo e, ao mesmo tempo, rejeitar peremptoriamente o
reformismo social-democrata preconizado por ele. Mas nem por isso está
imune, por exemplo, às críticas metodológicas que Lukács endereçou a Eduard
Bernstein no livro "História e Consciência de Classe", particularmente à
ilusão de que a simples seleção dos fatos relevantes já não contenha uma
interpretação. Para Jacob Gorender, a fonte dos equívocos de Marx e do
marxismo, dado fundamental que o impele a revisar essa tradição, seria a
constatação de que, ao contrário do que sempre se supôs, "o proletariado é
ontologicamente reformista". Para corroborar o que considera uma evidência,
recorre ao artigo "Século Marxista, Século Americano", do italiano Giovanni
Arrighi (em "A Ilusão do Desenvolvimento", ed. Vozes), que destaca a cisão
do marxismo em movimentos reformistas no centro e revolucionários na
periferia do capitalismo.

Imitação do privilégio
Entretanto o que preocupa Arrighi não é uma definição sobre o caráter
ontológico da classe operária, mas sobretudo o fato de que a desigualdade do
sistema interestatal (entre os países do núcleo orgânico e os demais) parece
ter determinado a ação do proletariado mais fortemente que o objetivo
socialista. Isto é, a classe operária das nações do centro esforça-se por
manter a posição privilegiada de seu país, enquanto os trabalhadores da
periferia anteviram (equivocadamente) na revolução um meio de alcançar o
padrão dos países centrais.
Diante desse dilema não basta propor a substituição da força social
preponderante no processo revolucionário, como fez Gorender ao apostar suas
fichas nos assalariados intelectuais. A existência de um sistema
interestatal hierarquicamente estruturado e imune a alterações tornou-se uma
questão incontornável para quem quiser propor modificações no modo de
organizar o mundo, sejam marxistas ou não.

Marxismo sem Utopia
288 págs., R$ 29,90 de Jacob Gorender. Ed. Ática (r. Barão de Iguape, 110,
CEP 01507-900, SP, tel. 0/xx/11/ 3346-3318).

Ricardo Musse é doutor em filosofia pela USP e membro da comissão executiva
da revista "praga" (Hucitec).

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 06/02/2000 
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01Jan2000 GUATEMALA: Guatemala in the global system. 
By Chase-Dunn, Christopher.
With the signing of peace accords in 1996 ending Latin America's longest and
bloodiest civil war, Guatemala opened a new chapter in its history, one in
which a new and inclusive political community might finally emerge. For
scholars, such an era of potential societal normalization and
democratization is a propitious opportunity to reconsider how a more
inclusive and multiethnic national community could emerge and how
Guatemalans might respond to the changing forces of economic, ideological,
and geopolitical globalization. The end of the Cold War, powerful global
market forces, changing foreign policies in the developed countries, the
emergence of stronger multilateral agencies at the world level, and the
current hegemony of neoclassical policy prescriptions emanating from
powerful global agencies-all these factors pose significant challenges as
well as possible opportunities for Guatemalan democratization and
development.
Guatemala is the largest country in Central America and was the last to
negotiate an end to civil war. In many ways, Guatemala's social problems are
representative of those in many other parts of the Third World. Poverty and
discord among ethnically different populations appear in many developing
countries. Guatemala is not among the world's poorest countries; on the
basis of gross national product per capita, it falls into the category the
World Bank terms "low-to middle-income countries." But among countries in
this category, Guatemala has one of the highest economic disparities between
rich and poor. It has valuable national resources but also unusually high
un-and underemployment. The tax rate relative to the gross domestic product
is very low.
In this context, the peace process created an important opening. Formerly
excluded groups have ostensibly been invited to participate in legal and
institutional processes for formulating policies of development and
democratization. The prospect of a new, multiethnic nation that recognizes
the cultural, political, and economic rights of its poorest and least
powerful citizens is more of a real possibility now than it has been for
many decades. Guatemala's accord on Identity and Rights of Indigenous
Peoples, one of the peace accords, for example, is a conceptual breakthrough
that many other countries should emulate.
Comparing the social changes in developing countries of Asia, Africa, and
Latin America is important for understanding particular countries such as
Guatemala, as well as for comprehending the global system as a whole. The
situation of a developing country emerging from a long period of strife
suggests comparisons with other specific countries-El Salvador and
Nicaragua-but also South Africa and the countries of the Middle East. These
cases of struggle and partial reconciliation need to be compared and placed
in the historical context of decolonization and national liberation
movements (see Arnson 1999).
Along similar lines, democratization and development policies in Guatemala
cannot be adequately understood without considering the worldwide waves of
democratization (Markoff 1996), as well as important changes in the world
economy. The trajectory of the East Asian economies raises the question of
whether development models that have worked there would be entirely
appropriate for Guatemala. It also suggests possibilities for eventual
Guatemalan involvement in Pacific Rim linkages.
Guatemalan economic, political, and cultural change has long been
importantly affected by the actions of powerful states and firms in the
developed countries, especially the United States. The actions of U.S.-based
firms and political-military interventions at important historical points
have had a major impact on Guatemalan society, as well as on other Central
American countries.
The demise of the Soviet Union and the emergence of global patterns of
economic restructuring have produced a hegemonic consensus regarding the
necessity of producing for the global market and courting foreign
investment. This ideological perspective has been reinforced by the policies
of powerful multilateral agencies, such as the World Bank and the
International Monetary Fund (IMF). But economic and ideological
globalization have also been accompanied by a long-term trend toward greater
international and transnational political organization and integration and
the slow emergence of global governance (Murphy 1994). The United Nations
has played an important role in the Guatemalan peace process. International
organizations of indigenous peoples, labor unions, women's movements, and
movements for environmental protection have begun to play important roles in
the politics of every country. These movements are part of a process of
political and social globalization that is emerging in tandem with, and in
response to, economic and cultural globalization.
The problem of Guatemalan development in context thus requires that we
understand the current period in long-term perspective and in wide
geographical circumstance, both nationally and globally. The possible
results for Guatemala could be not only part of, but potentially active in
shaping, the future of the larger world society. How the relationship
between the developed and the developing countries is worked out in the next
decades will be a major determinant of the nature of the twenty-first
century world-system. Guatemala is a node for our understanding of these
emerging structures.
The theoretical perspective that is best suited to such a temporally deep
and spatially broad analysis is the world-systems perspective (Shannon
1996). The world-systems approach looks at human institutions over long
periods of time and employs the spatial scale necessary for comprehending
whole interaction systems. It is neither Eurocentric nor core-centric, at
least in principle.
The main idea is simple: human beings on Earth have been interacting with
one another in important ways over broad expanses of space since the
emergence of oceangoing transportation in the fifteenth century. Before the
Americas were incorporated into the Afroeurasian system, many local and
regional world-systems (intersocietal networks) held sway (see Blanton et
al. 1992). These were inserted into the expanding European-centered system
largely by force, and the surviving populations of indigenous Americans were
mobilized to supply labor for a colonial economy that was repeatedly
reorganized according to the changing geopolitical and economic forces
emanating from the European and, later, North American core societies.
This whole process can be understood structurally as a stratification system
composed of economically and politically dominant core societies (themselves
in competition with one another) and dependent peripheral and semiperipheral
regions. Some of these have succeeded in improving their positions in the
larger core-periphery hierarchy, while most have simply maintained their
relative positions.
This structural perspective on world history allows us to analyze the
cyclical features of social change and the long-term trends of development
in historical and comparative perspective. We can see the development of the
modern world-system as driven primarily by capitalist accumulation and
geopolitics, in which businesses and states compete with one another for
power and wealth. Competition among states and capital is conditioned by the
dynamics of struggle among classes and by the resistance of peripheral and
semiperipheral peoples to domination from the core. In the modern
world-system, the semiperiphery is composed of large and powerful countries
in the Third World (for example, Mexico, India, Brazil, China) and smaller
countries that have reached intermediate levels of economic development
(such as the East Asian newly industrialized countries). It is impossible to
understand the history of social change in the system as a whole without
taking into account both the strategies of the winners and the strategies
and organizational actions of those who have resisted domination and
exploitation.
It is also difficult to understand how innovative social change emerges
without a concept of the world-system as a whole. As with most earlier
regional intersocietal systems, new organization forms that transform
institutions and that lead to upward mobility most often emerge from
societies in semiperipheral locations. Thus, all the countries that became
hegemonic core states in the modern system had formerly been semiperipheral.
This is a continuation of a long-term pattern of social evolution that has
been called "semiperipheral development" (Chase-Dunn and Hall 1997). Earlier
semiperipheral conquest states and semiperipheral capitalist city-states
acted as the main agents of empire formation and commercialization for
millennia. The pattern includes the semiperipheral communist states and
probably will also comprise future organizational innovations in
semiperipheral countries that may transform today's global system.
The world-systems approach requires that we think structurally. We must be
able to abstract from the particularities of uneven development the
structural continuities. Today, the core-periphery hierarchy remains, though
some countries have moved up or down (see Chase-Dunn and Grimes 1995). The
interstate system also remains, though the internationalization of capital
has perhaps further constrained states' ability to structure national
economies. States have always been subjected to larger geopolitical and
economic forces in the world-system, and, as is still the case, some have
been more successful at exploiting opportunities and protecting themselves
from liabilities than others.
In this perspective, many of the phenomena that have been called
globalization correspond to recently expanded international trade, financial
flows, and foreign investment by transnational corporations and banks. The
globalization discourse generally assumes that until recently there were
separate national societies and economies, and that these have now been
superseded by an expansion of international integration driven by
information and transportation technologies. Rather than a wholly unique and
new phenomenon, however, globalization is primarily international economic
integration, and as such it is a feature of the world-system that has been
increasing for centuries (Chase-Dunn et al. 1999).
The Great Chartered Companies of the seventeenth century were already
playing an important role in shaping the development of world regions.
Certainly, the transnational corporations of the present are much more
important players, but the point is that "foreign investment" is not an
institution that has become important only since 1970 (or since World War
II). Giovanni Arrighi (1994) has shown that finance capital has been an
important component of the commanding heights of the world-system since the
fourteenth century. The current floods and ebbs of world money are typical
of the late phase of very long "systemic cycles of accumulation."
TYPES OF GLOBALIZATION
The discourse about globalization has used the term to mean several
different things. For some writers, globalization means a new stage of
global capitalism that is qualitatively different from an earlier stage that
recently ended, though how it allegedly differs varies from author to author
(Chase-Dunn 1998, chaps. 3, 4). This essay will distinguish between two main
meanings of the term globalization: international integration and the
political-ideological discourse of global competitiveness.
Globalization as international integration needs to be further denoted as
international economic integration, international political integration, and
international cultural and communicative integration. Of course, each of
these subtypes has many aspects; but the point is that international
integration relates to the extent and intensity of links in a set of global
networks of interaction. We can determine empirically how economically
integrated were the societies on Earth in the late nineteenth century and
how "economically globalized" the world economic network is now (Chase-Dunn
et al. 1999). This question is separable from people's sense of their
linkages with one another.
Economic globalization is both a long-term trend and a cyclical phenomenon.
If we calculate the ratio of international investments to investments within
countries, the world economy had nearly as high a level of "investment
globalization" in 1910 as it did in 1990 (Bairoch 1996). Similarly, if we
calculate the ratio of total world international exports to the sum of all
the country GDPs, there was a very high peak of "trade globalization" just
before World War I, with a rapid decrease thereafter until 1950 and then a
slow rise to the current very high level of trade globalization.
Globalization as international economic integration therefore should be
understood as part of a long-term set of processes that have characterized
the world-system for centuries and, arguably, continue to describe the
system in the current period of global capitalism (Chase-Dunn 1998,
xiv-xvi).
The cyclical trend of international economic integration needs to be
understood in the context of those other cycles and trends. They imply that
future struggles for economic justice and democracy need to learn from
earlier struggles in the world-system context. While some populists have
suggested that progressive movements should again employ the tools of
economic nationalism to resist the powers of the "global princes of capital"
(Moore 1996; Mander and Goldsmith 1996), others contend that political
globalization of popular movements will be required to create a democratic
and collectively rational global commonwealth (Robinson 1998-99).
THE GLOBALIZATION PROJECT
The term globalization has been used in a different way to refer to "the
globalization project"-the abandonment of Keynesian models of national
development and a new emphasis on deregulation and opening national
commodity and financial markets to foreign trade and investment (McMichael
1996). This use points to the ideological aspects of the most recent wave of
international economic integration. The term I prefer for this turn in
global discourse is neoliberalism. The worldwide decline of the political
left may have predated the revolutions of 1989 and the demise of the Soviet
Union, but it was certainly also accelerated by these events. The structural
basis of the rise of the globalization project is the new level of
integration reached by the global capitalist class.
The internationalization of capital has long been an important part of the
trend toward economic globalization, and many claims to represent the
general interests of business have been made-indeed, by every modern
hegemon. But the real international integration of interests of the
capitalists in all parts of the system has reached a level greater than ever
before.
This is the part of the model of a global stage of capitalism that must be
taken most seriously, though it can certainly be overdone. The world-system
has now reached a point at which both the old interstate system, based on
separate national capitalist classes, and new institutions representing the
global interests of capitalists simultaneously exist and wield power. In
this light, each country can be seen to have an important ruling class
fraction that is allied with the transnational capitalist class.
Neoliberalism began as the Reagan-Thatcher attack on the welfare state and
labor unions. It evolved into the IMF's structural adjustment policies and
the triumphalism of global business after the demise of the Soviet Union. In
U.S. foreign policy, it has found expression in a new emphasis on "democracy
promotion." Rather than propping up military dictatorships in Latin America,
the emphasis has shifted toward coordinated action between the CIA and the
U.S. National Endowment for Democracy to promote electoral institutions
there and in other semiperipheral and peripheral regions (Robinson 1996).
Robinson points out that the kind of "low-intensity democracy" that is
promoted is really best understood as "polyarchy," a regime form in which
elites orchestrate a process of electoral competition and governance that
legitimates state power and undercuts more radical political alternatives
that might threaten their ability to maintain their wealth and power by
exploiting workers and peasants. Robinson convincingly argues that polyarchy
and democracy promotion are the political forms most congruent with a
globalized and neoliberal world economy in which capital is given free rein
to generate accumulation wherever profits are greatest. Globalized capital,
moreover, has been explicitly constructed to out-maneuver the institutional
contraints that had emerged from labor unions, socialist parties, and
welfare states, as well as economic nationalism and socialist institutions
in the periphery and semiperiphery.
Certainly, new incarnations of those older strategies will emerge in the
future as marginalized, dominated, and exploited peoples learn to resist the
new globalized forms of control. Indeed, some older ideas that may have been
ahead of their time may now come into their own. For example, labor
internationalism had become a tired phrase used as a fig leaf for Soviet
imperialism; but a new wave of labor internationalism will probably be the
only rational response to the latest wave of the globalization of capital.
The women's movement and the environmental movement have already developed
new transnational organizational structures, and such an approach is also
emerging among the indigenous peoples of the world (Wilmer 1993).
These new transnational "antisystemic movements" (Amin et al. 1982; Arrighi
et al. 1989) can be described as globalization from below. Alliances among
different groups can organize together across borders based on their common
desire to confront neoliberalism and global capital. Thus global capital
creates, for the first time, the real historical possibility for an
Earthwide antisystemic political alliance that can build a more humane and
sustainable world society.
THE SPIRAL OF CAPITALISM AND SOCIALISM The interaction between expansive
commodification and resistance movements can be denoted as "the spiral of
capitalism and socialism" (Boswell and Chase-Dunn 2000). The spiral metaphor
describes how capitalism and socialism feed each other's growth and
organizational forms. Capitalism spurs socialist responses by exploiting and
dominating peoples, and socialism spurs capitalism to expand its scale of
production and market integration and to revolutionize technology.
The historical development of the communist states can be explained as part
of a long-term, spiraling interaction between expanding capitalism and
socialist counterresponses. The Russian and Chinese revolutions were
socialist movements in the semiperiphery that intended to transform the
global logic of capitalism but ended up using socialist ideology to mobilize
industrialization for the purpose of catching up with core capitalism.
Defined broadly, socialist movements are those political and organizational
means by which people try to protect themselves from market forces,
exploitation, and domination, and to build more cooperative institutions.
The several industrial revolutions, by which capitalism has restructured
production and reorganized labor, have stimulated a series of political
organizations and institutions created by workers to protect their
livelihoods. This happened differently under different political and
economic conditions in different parts of the world-system. Skilled workers
created guilds and craft unions. Less-skilled workers created industrial
unions. Sometimes these coalesced into labor parties that played important
roles in supporting the development of political democracies, mass
education, and welfare states (Rueschemeyer et al. 1992). In other regions,
workers and peasants were less politically successful, but managed at least
to protect access to rural areas or subsistence plots for a fallback or
hedge against the insecurities of employment in capitalist enterprises. To
some extent, the burgeoning contemporary "informal sector" in both core and
peripheral societies provides such a fallback.
The mixed success of workers' organizations also had an impact on the
further development of capitalism. In some places, workers or communities
successfully secured higher wages or protected the environment in ways that
raised the costs of production for capital. When this happened, either
capitalists displaced workers by automating them out of jobs, or capital
migrated to places where fewer constraints allowed cheaper production.
The process of capital flight has been an important force behind the uneven
development of capitalism and the spreading scale of market integration for
centuries, as capitalism has grown ever more international and the size of
firms has increased. International markets became more and more important to
successful capitalist competition. Fordism, the employment of large numbers
of easily organizable workers in centralized production locations, was
partially supplanted by "flexible accumulation" (small firms producing
small, customized products) and global sourcing (the use of substitutable
components from broadly dispersed competing producers). These new production
strategies made traditional labor organizing approaches much less viable.
Socialists were able to gain state power in certain semiperipheral states
and to create political mechanisms for protection against competition with
core capital. This was not a wholly new phenomenon; capitalist
semiperipheral states had done similar things. But the communist states
claimed a fundamentally oppositional ideology, in which socialism was
allegedly a superior system that would eventually replace capitalism.
The content of the ideology may make some difference for the internal
organization of states and parties, but every contender must be able to
legitimate itself in the eyes and hearts of its cadre. The claim to
represent a qualitatively different and superior socioeconomic system is not
evidence that the communist states were ever able to become structurally
autonomous from world capitalism.
The communist states severely restricted the access of core capitalist firms
to their internal markets and raw materials, and this constraint on the
mobility of capital was an important force behind the post-World War II
upsurge in the spatial scale of market integration and a new revolution of
technology. In certain areas, capitalism was driven to further revolutionize
technology or to improve living conditions for workers and peasants because
of the demonstration effect of propinquity to a communist state.
U.S. support for state-led industrialization in Japan and Korea (in contrast
to U.S. policy in Latin America) is only understandable as a geopolitical
response to the Chinese revolution. The existence of "two superpowers"-one
capitalist and one communist-in the period since World War II provided a
fertile context for the success of international liberalism within the
"capitalist" bloc. This was the political-military basis of the rapid growth
of transnational corporations and the latest round of "time-space
compression" made possible by radically lowered transportation and
communication costs (Harvey 1989). This technological revolution has once
again restructured the international division of labor and created a new
regime of labor regulation called "flexible accumulation." The communist
states' long reintegration into the capitalist world-system took place
because they could not compete with the new form of capitalist regulation.
Thus capitalism spurs socialism, which spurs capitalism, which spurs
socialism again in a wheel that turns and turns while getting larger.
As trends in the last two decades have shown, austerity regimes,
deregulation, and marketization in nearly all the communist states occurred
during the same period as similar phenomena in noncommunist states. The
synchronicity and broad similarities between Reagan-Thatcher deregulation
and attacks on the welfare state, austerity socialism in most of the rest of
the world, and increasing pressures for marketization in the Soviet Union
and China are all related to the B-phase downturn of the Kondratieff wave,
as were the moves toward austerity and privatization in most semiperipheral
and peripheral states.1 The trend toward privatization, deregulation, and
market-based solutions among parties of the left in almost every country has
been thoroughly documented by Lipset (1991). Nearly all socialists with
access to political power have abandoned the idea of doing anything more
than buffing off the rough edges of capitalism.
The pressures of a stagnating world economy may affect national policies
differently from country to country, but the ability of any single national
society to construct collective rationality is limited by its interaction
with the larger system. The most recent expansion of capitalist integration,
termed "globalization of the economy," has made autarchic national economic
planning seem anachronistic. Yet political reactions against economic
globalization are now under way in the form of revived ex-communist parties,
economic nationalism, and a growing coalition of popular forces that are
critiquing the ideological hegemony of neoliberalism (see Mander and
Goldsmith 1996).
IMPLICATIONS FOR GUATEMALA
From the ground in Guatemala, it must appear that most of the global view as
described above is a dream of someone who lives on the moon.
The enormous problems of everyday life for the vast majority of Guatemalans
and the hectic pace of political events in the struggle to implement the
peace accords make it hard to consider the broad sweep of history or the
possibilities for constructing a more egalitarian and sustainable
world-system. Nevertheless, a historical understanding of the dynamics of
global capitalist development is necessary to comprehend current
developments and future possibilities.
What can we expect of the world-system in the next 50 years that will be
relevant to Guatemala? Having been in in a K-wave downswing (B-phase) since
the late 1960s, the world economy is now entering an upswing, or A-phase, in
which relative rates of economic growth will generally be higher. The fiscal
pressures on states will ease; labor will be in demand. The possibilities
for mobilizing workers and peasants to demand higher wages and better
working conditions should be greater than heretofore because firms and
states will be more willing to make compromises to keep business running
smoothly.
There is also a downside to this trend. The rate of ecological degradation
will increase as more resources are used in production. Late in K-wave
upswings, when states have abundant resources, is the point when wars occur
among core states (Goldstein 1988). If the economic hegemony of the United
States continues to decline in comparision to competing core powers
(Germany, Japan, China), the world will enter a dangerous window of
vulnerability to core warfare in the 2020s (Chase-Dunn and Podobnik 1999).
Catastrophic environmental disaster could be another possibility. These
portents should concern progressive movements everywhere.
The slow emergence of a world state will create the possibility for the
democratization of global political institutions. Popular movements could
act to block global state formation, but they might alternatively struggle
to build democratic and collective rationality into the new global
institutions. The hypothesis of semiperipheral development suggests that the
most transformative institutional innovations and the most powerful
challenges to capitalism will come from semi-peripheral regions in the
world-system. Mexico is the most obvious candidate that has direct relevance
for the Guatemalan situation. This said, a country such as Guatemala, with
its human and natural resources, could also be a fertile ground for
transformational action, especially in an age of global politics. In many
ways, the smaller countries have a greater interest in the unexplored
terrain of "globalization from below."2
Most recent interpretations of Central American history paint a picture of
each country with its own complicated and tumultuous experience, leading by
different paths to the same happy result: democracy (for example, Paige
1997). A world-systems perspective produces a different portrait. The
Central American countries have all been repeatedly restructured by world
market forces and geopolitics. The landed colonial patricians were displaced
by the agroexporters (who ruled in alliance with the military), and these,
in turn, have been partially supplanted by a new transnational elite of
neoliberals who seek to link the national economies more tightly with core
capital and global markets. It is fascinating to compare the
nineteenth-century liberal ideology and policies of the Central American
agroexporting elites (science, reason, privatization of communal resources)
with more recent neoliberal ideology and policies-competitiveness, fiscal
austerity, deregulation, and privatization. Both liberalism and
neoliberalism in Central America were and are combinations of imported ideas
and local adaptations that justify and facilitate new forms of exploitation
and outmaneuvering of rivals.
Popular movements emerged during the twentieth century in Mexico and Central
America in response to authoritarian rule, agrarian restructuring, and
grinding poverty, but the timing of these movements has varied from country
to country, depending on the shifting coalitions of elites and the changing
nature of agrarian class relations in different regions. The actions and
reactions of local rulers and the interventions of the United States have
been influenced by the sequencing of rebellions and revolutions in Central
America, Latin America, and the rest of the world. The Guatemalan
nationalist movement after World War II and the U.S. intervention to
overthrow the elected government of Jacobo Arbenz in 1954 (Gleijeses 1991)
was distinctive in its timing. The other Central American countries had
their popular upsurges and repressions in the late 1920s and 1930s.
John Markoff's 1996 and 1998 studies of waves of democratic movements and
institutional inventions show that these occurred on an interactive world
stage rather than in isolation in each country. This also needs to be said
of the revolutions of the twentieth century. Both the rebels and the forces
that sought to defeat them learned much from previous efforts elsewhere. The
world-systems perspective encourages us to see both the uniquenesses of
particular political situations and the overall picture of twentieth-century
resistance and repression. One irony of the differing sequences is the
current situation in southern Mexico and the quite different situation
across the border in Guatemala. After 30 years of civil war, Guatemalans are
tired of killing and want to make the peace work, while in southern Mexico a
long-dormant situation, the Chiapas struggle for land ownership, has heated
up.
William Robinson (1996, 1998, and in this issue) sees the emergence in each
Central American country of a new ruling class fraction of the domestic
elite that represents the interests of global capitalism; this transnational
elite promotes neoliberal policies and openness to global investment.
Robinson contends that the outcome of the 1980s struggles was a system of
elite-controlled elections in which this transnational elite gained the
greatest share of power.
This analysis is substantially accurate, but the Central American countries
have important differences that must be considered. One is the difference in
movement-repression sequences. More significant, as Robinson points out, is
that the strength of the neoliberal fraction varies substantially from
country to country, and is perhaps weakest in Guatemala. It is also
important to realize that the neoliberal domestic elite may sometimes have
interests that contradict the policies of the neoliberal international
organizations, such as the World Bank and the IMF. On these issues, the
domestic neoliberals may join the older landed elites in a common cause to
defend Guatemalan "sovereignty" against the meddling of the international
financial institutions (IFIs) and the UN. Nevertheless, although it now
controls the presidency, Guatemala's neoliberal transnational elite is not
very powerful against the older agroexporters and the military, at least in
comparison with the other Central American countries and Mexico. The
original Guatemalan "liberals"-the agroexporting elite-are reluctant to pay
income taxes, so the Guatemalan government must fund itself mainly by
extracting revenues from the poor by means of consumption taxes. The old
ruling families have found enough allies to prevent a tax reform that would
put the state on a firmer fiscal basis. Without such a reform, even
neoliberal development projects have little hope of success.
The issue of tax reform is one in which at least some of the domestic
neoliberals may have more in common with the landed elites than with their
transnational class allies as represented by the IFIs. On a visit to
Guatemala in 1997, then IMF director Michael Camdesus explicitly stated the
need for tax reform in Guatemala to put the state on a sound fiscal
foundation. The Consultative Group (a subcommittee of the Group of Seven,
the elite club of most-developed core countries) has used its financial
leverage (based on a huge commitment of loans and grants for development
projects) to try to move the implementation of the peace accords forward
(Ruthrauff 1998).
The Guatemalan case bears other important distinctions. The existence of
both poor ladinos (mestizo or culturally hispanic) and a large group of
indigenous people (indeed, a majority of the population) has added a strong
ethnic dynamic to intra-and interclass relations. This ethnic division among
the poor has made it easy for the rulers to pit exploited groups against one
another. This element also operates in southern Mexico, but it is much less
important in the other countries of Central America. The prospect for a
cross-border (Guatemala-Chiapas) Mayanist alliance that coordinates and
cooperates with the global indigenist movement (Wilmer 1993) could be a
powerful force in regional politics; but the importance of a strong working
alliance between indigenous and ladino popular groups cannot be
overemphasized. Indigenous identity needs to include a class analysis so
that common interests between ladinos and Maya can be conceptualized and
organized.
The need for this reconciliation of sorts is underscored by the current
upsurge in domestic crime. The Guatemalan revolutionary armed struggle that
began in the 1960s was never strong enough directly to threaten the power of
the central government, but it did stimulate a huge repressive effort
supported by the CIA, in which the official armed forces received massive
resources and recruited large numbers of poor young men from both the ladino
and Mayan regions. This method of suppressing the revolt provided an avenue
of employment and security that is, ironically, contracting since the peace
accords. This is probably the most important cause behind the current
outbreak of kidnapping and robbery.
GLOBALIZATION FROM BELOW, OR DELINKING?
Labor movements in Guatemala have already partially succeeded in forging new
implementations of the old notion of labor internationalism and in
mobilizing support from the United States and other core countries based on
concerns about human rights and the labor provisions of international trade
agreements (Frundt 1987; Armbruster 1998). The problems of cross-border
labor organizing and international labor solidarity are great, but the new
organizational terrain of global capitalism requires new strategies (Stevis
1998).
Because the globalization project has abrogated social compacts between
business and labor in core countries, especially the United States, there
are new possibilities for cooperation among Latin American and U.S. workers
and their organizations. John Sweeney, the president of the AFL-CIO, visited
the leaders of independent unions in Mexico City in 1997. This willingness
to look at new alliances is a welcome relief from the longstanding Cold War
approach to labor internationalism that was AFL-CIO practice until Sweeney's
reform group took the leadership. Armbruster (1998) reports that help from
the AFL-CIO was an important factor in the organizing success of the workers
at the Phillips-Van Heusen plant in Guatemala.
Women's movements in El Salvador have made important efforts to link their
struggles with sympathetic groups in other Central American countries and in
the United States. In Mexico, the resurgent electoral left, the agrarian
movements in Chiapas and Guerrero, and independent trade unions have found
that common opposition to neoliberalism is a uniting force. Some of Mexico's
popular leaders have made an effort to mobilize support from the United
States, but as yet, not many see this as part of a larger effort to
democratize both Mexico and the global system.
The emerging popular responses to globalization and neoliberalism face an
important and potentially divisive issue. One possibility for mobilizing
against global capitalism is "delinking" and self-reliance. Another, very
different approach is to respond to global capitalism by building global
democracy. The world-systems perspective has much to offer in considering
the value of these options.
The neoliberals have pronounced withdrawal from the capitalist world economy
as unthinkable, and many popular leaders seem to agree. The wonders of
technology and communications are alleged to be the highest prizes, and only
by playing the game of competitiveness can a developing country have access
to these. But some critics are now questioning whether the "necessity" of
openness to the global economy is worth the costs. This is a healthy
response because it unmasks many of the ideological presuppositions of
neoliberalism. People need housing, clean water, and healthy food; it is not
necessary to be able to program the microwave oven from the car radio.
Still, new information technologies can make it easier than ever to organize
transnational movements. Maximum advantage needs be made of these while
holding the light to justifications of submission based on alleged economic
necessity.
The notion that self-reliance is an anachronism needs to be examined in
historical perspective. Protectionism and national mobilization of
development have been useful and successful strategies in the past. The
semiperipheral national societies that later became hegemons in the
Eurocentered world-system (England, the United States) all utilized tariff
protectionism and state-sponsored mobilization to move themselves up the
value-added hierarchy. The communist states used self-reliance and socialist
ideology to try to establish a new mode of accumulation, though they ended
up trying hardest to catch up with core capitalism. The demise of the
communist states is also alleged to prove the worthlessness of state
planning and self-reliant economic nationalism. But the successful practice
of upward mobility in the world-system demonstrates the value that state
intervention and protection of certain activities can have (Evans 1995).
These strategies in the communist states did indeed "work" in terms of
industrialization and urbanization, though the utopias they were intended to
forge did not actually result. Instead, capitalism expanded and
reincorporated these semiperipheral challengers. Today, this picture of
challenge and response needs to take in the higher degree of economic and
political integration of the current world-system. It is undoubtedly
costlier to drop out of a more integrated system than to drop out of a less
integrated one, so the costs of going it alone have increased. These costs
have always been higher for small countries, such as those in Central
America. This is why small countries have a greater interest in cross-border
cooperation among popular movements. But the institutions of nationalism and
the existing rules of the interstate system make such cooperation difficult.
Popular movements in Guatemala face the dilemma of whether to focus on local
and national-level institutions and alliances or on international and global
ones. Would it be more productive to gain a voice in the national state and
to use national sovereignty to provide protection from global market and
geopolitical forces, or to try to reform the world-system by promoting
popular democracy? The national route has a long history and is supported by
the existing institutions, while the international route is little
understood and in great need of imagination. Global democracy can be defined
abstractly, but what would it mean in practice?
Globalization from below would mean choosing the international alternative.
In practice, neither a purely national strategy nor a purely global one
would work for Guatemala, or any other country in the contemporary context.
So the real problem is to decide on the mix and to pursue coordinated and
complimentary approaches.
POLYARCHY AND BEYOND Robinson's analysis raises another issue in the
Guatemalan situation. Guatemala has not yet really achieved polyarchy, let
alone real democracy. Polyarchy, while it may be largely a smokescreen for
continued domination and inequality, is undoubtedly better than rule by the
military. The implementation of the peace accords has gone very slowly; some
observers have wondered if the current government is seriously committed to
the process (for example, Jonas, this issue). The main problem, though, is
that the weak neoliberal elite fraction cannot afford to push too hard on
the military or the agroexporting elite families.
Opposition to neoliberal policies should also serve as a unifying strategy
for different kinds of popular movements in Guatemala. Globalization from
below, in concert with popular forces in other Central American countries
and Mexico, would most naturally be organized around opposition to
neoliberal policies and institutions.
In Guatemala, however, it might make tactical sense for the popular forces
to ally themselves with the transnational neoliberals and the IFIs in the
short run, so as to obtain concessions from the agroexport dynasties
regarding the fiscal strength of the state and demilitarization. The
implementation of the peace accords has at least the possibility of
establishing the trappings of an electoral democracy with popular
participation. Under these conditions, the campaign against neoliberalism
might need to be postponed.
This does not mean that popular movements should keep quiet. I agree with
Robinson that strong popular movements in Guatemala can provide the support
that the global and local neoliberals need to push through peace accord
implementation. Once electoral democracy with popular participation is
firmly in place, the campaign against neoliberal policies can commence in
earnest. In the meantime, the popular movements need to learn about the
history of the world-system and the globalization project. This, and the
pursuit of further international popular alliances, will make it possible
for Guatemalans to benefit from, and contribute to, globalization from
below. Global democracy begins at home.
NOTES
An earlier version of this article was presented at the National Science
Foundation-sponsored conference on Guatemalan Development and
Democratization: Proactive Responses to Globalization, March 26-28, 1998,
Universidad del Valle, Guatemala. Thanks to Patricia Landolt, Susanne Jonas,
John A. Booth, and Bill Robinson for their suggestions.
1. The Kondratieff wave (K-wave) describes a worldwide economic cycle with a
period of 40 to 60 years in which the relative rate of economic activity
increases (during "A-phase" upswings) and then decreases (during "B-phase"
periods of slower growth or stagnation).
2. What is needed here is a strong linkage between the trajectory of the
world-system and the situation in Guatemala today. The theoretical
perspective presented above would be much more useful if it were combined
with a world-system history and formal comparative analysis that looks at
the last two hundred years in local, regional, continental, and global
frameworks from the focal point of the Guatemalan people. This research
needs to be done. In its absence, I present a commentary on the current
situation that uses insights from the longterm, large-scale perspective
presented above.
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Christopher Chase-Dunn is Distinguished Professor of Sociology and director
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was republished in 1998. He is coauthor (with Terry Boswell) of The Spiral
of Capitalism and Socialism: Toward Global Democracy (2000). His current
research examines the trajectories of economic and political globalization
over the past two hundred years.
Chase-Dunn presents a short summary of the world-systems perspective on
globalization as relevant to considering the possibilities and probabilities
of Guatemala's prospects for democracy and development. Guatemala's
structural position in the larger global political economy is examined.
Copyright Journal of Interamerican Studies Winter 2000 
Sources:UMI 
JOURNAL OF INTERAMERICAN TUDIES AND WORLD AFFAIRS 01/2000 
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09Dec1999 BRASIL: Novos rumos para o socialismo. 
Em brilhante conferência feita em 1997 no Canadá, John Kenneth Galbraith
rememorou a importância do socialismo, da social-democracia, do trabalhismo,
neste século, no sentido de humanizar o capitalismo e salvá-lo do colapso
que seu desenvolvimento autônomo inevitavelmente provocaria.
A organização dos trabalhadores, o fortalecimento de suas lutas por
reiteradas e crescentes conquistas sociais, a invenção de direitos da
cidadania e instituições que compuseram verdadeiras redes de proteção social
são obras políticas inexcedíveis dos
socialistas/social-democratas/trabalhistas. Sua importância para a maior
estabilidade social e econômica, e melhor cooperação entre capital e
trabalho, foi reconhecida pelos próprios defensores do capitalismo, que
passaram a colaborar para o aperfeiçoamento do chamado Estado de Bem-Estar
Social. Aquelas conquistas representam, por assim dizer, a materialização
dos resultados de lutas políticas inspiradas pelos princípios de
solidariedade e de justiça social, que são os valores ideológicos básicos
daqueles que Galbraith chamou de "comprometidos com o social"(social
concerned), para incluir também os liberals americanos e canadenses.
Representam, também, uma fase de alta criatividade política do socialismo,
da social democracia e do trabalhismo, de invenção institucional, que se
pensava só ser encontrável em processos revolucionários, mas que se afirmou
através de um longo período de reformas iniciadas na Europa do Norte e
Ocidental e que se alastrou, com variações de um país para outro, pelos
outros continentes, inclusive a América Latina.
Isto só foi possível porque naquela etapa da história do desenvolvimento do
capitalismo geravam-se enormes ganhos de produtividade nas linhas de
produção fordistas, facultando uma distribuição que beneficiava não só os
detentores do capital, que acumulavam e reinvestiam seus ganhos, mas também
os assalariados, que cresceram em número e em poder aquisitivo.
Importa frisar, portanto, que foi a capacidade política dos socialistas de
todos os matizes que permitiu fazer com que o aumento geral da produtividade
resultante das inovações tecnológicas e dos novos métodos de gestão e
comercialização introduzidas pelos capitalistas, no último século, fosse
compartilhado pelos trabalhadores.
Melhores salários e condições de trabalho, bem como planos de seguridade com
maiores benefícios só foram possíveis porque os partidos de esquerda
pressionaram para incorporar parte substantiva dos ganhos de produtividade
em favor dos assalariados, ou seja, porque souberam aproveitar-se
positivamente do progresso técnico, sem temê-lo.
Agora vive-se uma nova crise do capitalismo, de múltiplas dimensões. Uma
delas se reflete nas instituições do Estado de Bem-Estar. É verdade que já
não funcionavam a contento, em muitos países em desenvolvimento, mas agora
há crises de financiamento em todas as instituições do Bem-Estar, inclusive
em países ricos, onde alguns direitos e serviços sociais são demasiado
generosos.
Estamos no limiar de uma nova era, que foi preparada nos últimos 20-30 anos
pela chamada globalização, ou seja, a interação de três processos: expansão
extraordinária dos fluxos internacionais de bens, serviços e capitais;
acirramento da concorrência nos mercados internacionais (contestabilidade
dos mercados); e a maior integração entre os sistemas econômicos nacionais.
Os três processos ocorreram simultaneamente, em grande intensidade,
facilitados pela telemática e pela alta liquidez internacional, e sem
provocar, até aqui, contramovimento protecionista, intervencionista e
regulador.
Ressurge o velho problema de realização do capital, que busca estratégias de
saída para a crise de acumulação. Enquanto não a encontra, não tendo destino
produtivo, dedica-se à especulação financeira selvagem e de alto risco. Tudo
indica, como procurou demonstrar Giovanni Arrighi, que estamos no fim de um
grande ciclo de acumulação (o quarto) e às portas de um novo período de
grande expansão econômica.
Precisa-se de criatividade, como fizeram os socialistas/social-democratas e
trabalhistas do passado, para compreender as transformações econômicas e
sociais em curso e propor as novas instituições políticas de que a
Humanidade vai precisar, para avançar. Assim como ocorreu com o processo de
Industrialização do mundo, no final do século XIX e início deste, com a
chamada Grande Transformação, de Karl Polany, os agentes políticos
responsáveis têm de domar a globalização econômica e usar sua força para
resgatar os contingentes populacionais excluídos em todos os continentes.
Sem dúvida, os imensos ganhos de produtividade que serão gerados oferecem
oportunidade imperdível para promover-se um intenso processo de
redistribuição do poder, da riqueza e da renda, entre as regiões e entre as
pessoas. Os socialistas têm de ser capazes de inventar novas instituições,
ou reformar as existentes, de modo a que favoreçam esta redistribuição,
indispensável para um futuro de paz e progresso para o homem. Em qualquer
circunstância, a implantação de instituições socialistas típicas dependerá
claramente da evolução das sociedades em ambiente político cada vez mais
democrático.
LUIZ SALOMÃO é deputado federal pelo PDT-RJ.
(c) 1999 AGÊNCIA O GLOBO
AGÊNCIA O GLOBO - A INFORMAÇÃO EXTRAORDINÁRIA
TEL:55 21 534 5742/57. 
Sources:O GLOBO (PORTUGUESE LANGUAGE) 09/12/1999 P7 
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11Nov1999 BRASIL: "Trata-se de abrir mão de um mito". 
São Paulo, Quinta-feira, 11 de Novembro de 1999

da Reportagem Local

Leia abaixo trechos da entrevista do historiador Jacob Gorender à Folha:
(HCS)

Folha - O sr. diz que a classe operária é, em si, reformista. Essa posição
não é incomum, raro é o modo como o sr. a expressa.
Jacob Gorender - O que se dá é que Marx tomou como premissa o fato de ser o
proletariado uma classe revolucionária. Isso está mais do que claro em sua
obra. E os marxistas em geral, eu inclusive, aceitamos esse princípio.
Hoje podemos observar isso com bastante clareza: o fato de ser explorada não
é suficiente para que uma classe seja revolucionária. O proletariado é, sem
dúvida, uma classe explorada, criadora do valor do qual se apropria a
burguesia em uma parte. Ele é combativo como reformista, isso eu acentuo.
Não obteve nada graciosamente da burguesia, mas não deixa, por isso, de ser
reformista.

Folha - O sr. acha que os trabalhadores intelectuais assalariados podem
assumir o papel de classe revolucionária. O que tornaria essa classe
ontologicamente (em si) revolucionária?
Gorender - Eu não afirmo "ontologicamente". Afirmo que eles podem assumir
esse papel por dois fatores: primeiro porque é um setor assalariado que está
crescendo; segundo porque ocupam não só as clássicas posições de formadores
de opinião, mas também posições-chave no processo de produção. Considero que
isso é discutível, mas é a procura de um novo sujeito.

Folha - Não tenderia a acontecer com esses trabalhadores o mesmo que o sr.
diz acontecer com os políticos que representam a burguesia, ou seja, a
aspiração à condição de burgueses?
Gorender - Uma série de alternativas é possível. Vejo uma repetição cada vez
mais grave das crises do capitalismo, um aumento das desigualdades, uma
situação que pode levar a uma radicalização de um grande conjunto de
assalariados e em particular desses que têm, por suas condições, uma
capacidade maior de percepção.

Folha - Esse grupo não teria de ser tão grande, numericamente, quanto o
proletariado?
Gorender - Eu não coloco isso como condição ""sine qua non". Digo que já é
uma classe-massa, já não é somente uma classe-elite. Ao que parece, esse
segmento será cada vez maior, dependendo do avanço tecnológico, e pode ser
que suplante o proletariado tradicional também em quantidade.

Folha - O sr. cita autores históricos, como Marx, Lênin, Trótski, mas também
dialoga com brasileiros como Maria da Conceição Tavares, Fernando Haddad e
Francisco de Oliveira.
Gorender - Eu valorizo os autores brasileiros. Considero que são nomes
importantes, que têm uma contribuição e eu me manifesto a respeito dela. Não
estou dizendo quem é mais importante, Robert Kurtz, Giovanni Arrighi, Paul
Kennedy ou eles. Para mim, é indispensável falar a respeito deles.

Folha - O sr. é um marxista otimista. Acredita numa revolução ou reforma que
leve ao socialismo. Não estaria aí repetindo o utopismo que critica em Marx?
Gorender - Pode ser que, no final, apesar de me empenhar numa filtração das
idéias utópicas, eu próprio ainda seja utópico. Mas essa conclusão eu deixo
para o ""post-mortem". Eu me empenhei em retirar do "corpus" marxista
aquelas teses que são manifestamente utópicas. Algumas dizem respeito ao
futuro, se o Estado vai desaparecer ou não. Eu penso que a história não
termina com o capitalismo, mas quando ele vai sair de cena, eu evito.
Além disso, incorporei de forma bastante clara o elemento da indeterminação,
da incerteza, tal qual as ciências exatas modernas. Não é uma mera repetição
de afirmações que Marx fez como ressalvas. Para mim, é um elemento novo no
marxismo,fundado na experiência concreta do século 20.

Folha - Há dez anos caía o Muro de Berlim.
Gorender - Eu não me associo às comemorações da queda do muro. Não vou me
associar a George Bush, a Helmut Kohl. Nunca vi o muro como algo louvável.
Foi algo triste, lamentável, que bem representou o tipo de socialismo de
certo modo até carcerário que existiu até 1991. A queda do muro pelo menos
eliminou um fator de divisão.

Folha - O sr. vê o PT como um partido social-democrata e reformista. Assim,
hoje ele representaria mais a classe operária?
Gorender - De certo modo, sim. Não digo isso como uma censura ao PT, que
nasceu colado à classe operária e que não pode ser muito diferente do que
representa. Ele entrou nos canais do reformismo da própria classe operária.

Folha - Os trabalhadores assalariados intelectuais não têm um partido
organizado que defenda seus interesses.
Gorender - Eu creio que esses representantes já estão nos partidos que
existem. Não espero que eles se organizem num partido isolado, podem atuar
nos já existem, no PT, no Brasil, por exemplo. Eu não faço muita figuração a
respeito desse segmento.

Folha - Isso tem um significado prático. É desistir de fazer do proletariado
senhor da história.
Gorender - Não se trata de desistir, mas de abrir mão de um mito, de que o
proletariado assumiria o papel de vanguarda. Essa expectativa não existe
mais, isso é mais ou menos difundido no meio marxista, mas talvez não se
tenham dito as coisas da maneira que eu digo. Agora podemos tomar as coisas
com mais propriedade do ponto de vista concreto.

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(c) C Copyright 1999, Folha de S. Paulo. All Rights Reserved. 
Sources:FOLHA DE S.PAULO 11/11/1999 
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31Oct1999 ESPAÑA: El largo siglo XX. 
Giovanni Arrighi
Ediciones Akal
En este trabajo se reconstruyen los cambios fundamentales que han jalonado
la relación entre la acumulación de capital y la formacióan del Estado a lo
largo de 700 años. El autor consigue sintetizar la teoría social, la
historia comparativa y la narración histórica en un lúcido análisis de las
estructuras y los protagonistas de la historia mundial en el último milenio.
Su lectura obliga a reflexionar sobre las regularidades y modelos de
actuación de un sistema socioeconómico que para incrementar algunas de sus
estrategias, opera con una gran plasticidad.
Diario El País Internacional, S.A., 1999. 
Sources:EL PAIS (SPANISH LANGUAGE) 31/10/1999 
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30Aug1999 BRASIL: Revista - PUC-SP lança nova revista "Praga". 
São Paulo, Segunda-feira, 30 de Agosto de 1999

REVISTA
Evento com debate acontece hoje
PUC-SP lança nova revista "Praga"
da Reportagem Local

"Arte Contemporânea e as Tarefas da Crítica" é o tema do debate de
lançamento do oitavo número da revista "Praga" (editora Hucitec), que se
realiza hoje, a partir das 19h30, no auditório 333 do prédio novo da
Pontifícia Universidade Católica de São Paulo (PUC-SP), na r. Monte Alegre,
984.
Participam do debate o filósofo Paulo Arantes (professor do departamento de
filosofia da USP), o crítico de cinema Ismail Xavier (professor da ECA-USP),
Ricardo Fabrini, professor de história da arte da PUC, Iumna Simon e João
Adolfo Hansen, ambos professores de letras na USP.
Três dos debatedores (Arantes, Hansen e Fabrini) escrevem ensaios sobre o
tema do debate para o novo número de "Praga", revista editada por
intelectuais de esquerda, a maioria de filiação marxista e de origem
paulista.
"Praga" traz um artigo do linguista e ativista político norte-americano Noam
Chomsky e outro do historiador e economista Giovanni Arrighi sobre o
predomínio militar e financeiro dos EUA hoje. O economista Celso Furtado
escreve sobre "A Reconstrução do Brasil", e o cientista político José Luís
Fiori, da Universidade Federal do Rio, sobre "A Riqueza de Algumas Nações".
Há ainda uma entrevista com o economista e sociólogo Francisco de Oliveira e
uma resenha inédita em português do historiador Fernand Braudel sobre dois
livros do também historiador Caio Prado Júnior, publicada pela primeira vez
em 1948.

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 30/08/1999 
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01Jul1999 USA: Looking back - Radical criminology and social movements. 
By Shank, Gregory.
THE LAUNCHING OF CRIME AND SOCIAL JUSTICE (NOW SOCIAL JUSTICE) IN 1974 WAS a
logical extension of the creation of alternative - some thought
revolutionary - institutions that had their roots in the period spanning the
late 1960s to 1975: the free universities, cultural expressions like the San
Francisco Mime Troupe, the Bay Guardian, and research groups like the North
American Congress on Latin America (NACLA) that bridged the academic and
off-campus "Movement" worlds (the civil rights, Black and Chicano Power,
antiwar, gay liberation, and feminist impulses that gave such research its
political poignancy). 1 In that sense, even though Crime and Social Justice
was the first radical criminology journal in the United States, it began
appropriately without much fanfare. Yet the year itself was anything but
unremarkable. In the popular culture, the jazz world lost Duke Ellington,
Bob Dylan was "Tangled up in Blue" on his Blood on the Tracks album,
Muhammad Ali danced like a butterfly and stung like abee, and Hank Aaron
eclipsed Babe Ruth's home run record. Although the Students for a Democratic
Society (SDS) had already self-destructed by splintering into a group
promoting symbolic violence and another intent on democratic-centralist
oblivion, college campuses were still highly politicized due to the war in
Indochina. Nonetheless, academic repression was beginning to take its toll
(disrupting the livelihoods of faculty members who were among the founders
of the journal). The Black Panther Party had split over whether to achieve
their goals via a peaceful electoral strategy promoted by Bobby Seale and
Huey P. Newton or through Eldridge Cleaver's last-gasp revolutionism (before
he opted for reactionary politics), and the Black liberation movement had
become polarized between Marxist and cultural nationalist positions. The
Native American armed occupation of Wounded Knee began in 1973, but FBI
repression at Pine Ridge remained intense through 1976. Meanwhile, the
anti-rape movement had made significant progress as part of the larger
women's movement, and prison reform was still a serious topic.
The Symbionese Liberation Army (SLA), who like some early radical
criminologists romanticized prisoners, stormed onto the scene and kidnapped
Patricia Hearst from a home near the journal's Berkeley office. It was not
long before SLA members were incinerated on real-time TV. This episode
helped to undermine much of the remaining public support the prisoner
movement enjoyed and reinvigorated right-wing countersubversive forces that
had run perilously short of genuine Communists to persecute. They seized
upon the "international terrorism" issue by making spurious links between
the SLA, the Weather Underground, Germany's Baader-Meinhof group, the
Italian Red Brigades, the Angry Brigade (a British terrorist group founded
on the principles of the Enrages of 1968 France), and the PLO, even though
from 1965 to 1976 a substantial number of incidents involving political
violence were attributable to right-wing and racist sources. The grand jury
had become a police state instrument during its heyday between 1970 and
1974. Domestic government spying was intense; Francis Ford Coppola's movie,
The Conversation, dramatized the Watergate-era paranoia over wiretapping,
invasion of privacy, and the apparent absence of conscience at the highest
levels of government. Between 1957 and 1974, the FBI's COINTELPRO operation
kept files on nearly 500,000 Americans whom J. Edgar Hoover and other FBI
officials considered to be subversives or potential "national security
risks" and infiltrated organizations such as the Medical Committee for Human
Rights and the National Lawyers Guild, not to mention the Black Panther
Party and the American Indian Movement.
Federal intervention in the 1970s transformed U.S. law enforcement into the
largest, most expensive, and most punitive system of justice in the world. A
"police-industrial complex" was created through enormous subsidies and an
integration of military expertise, command and control techniques, and
weapons, communications, and data collection technology. By 1974, the police
received nearly 60% of the nation's $15 billion criminal justice budget -
eight times the amount allocated a decade earlier. The number of police
officers in this country nearly doubled in the decade between 1965 and 1975.
Police helicopters hovered over barrios and housing projects; paramilitary
SWAT units learned team policing concepts that adapted Vietnam-era armed
responses. African American, Latino, and left organizations opposed these
trends and called for civilian review boards and "community control," but to
little avail. In the end, the U.S. became even more insecure about crime and
was readied for the prison explosion of the 1980s and 1990s.
Articles of impeachment were drafted against President ("Tricky Dick") Nixon
in 1974 during the political and constitutional crisis known as the
Watergate scandal. Having lost the confidence of U.S. ruling circles, Nixon
was forced from office. In Vietnam, fighting escalated and the United States
would soon be forced to exit in disarray. Rightist dictatorships collapsed
in Portugal (1974), Greece (1974), and Spain (with Franco's death in 1975).
With this came the precondition for united European democracies to coalesce
into a future economic superpower, but it also unleashed liberation
movements in Africa as Portugal undertook immediate decolonization. In
France and Italy, the balance of forces had swung substantially to the left.
The end of the great postwar economic boom of 1945 to 1973 was punctuated by
the OPEC oil price hike. A world economic recession ensued. The 1974
recession under President Ford was perhaps the deepest cyclical downturn
since the 1930s and was exacerbated by a military slowdown under conditions
of deescalation and detente that deprived the U.S. economy of a defense
against recession that had been relied upon in the 1960s. Globalization had
entered a new monetary and financial regime in response to "stagflation" -
low growth due to an absence of profitable investments, low productivity,
and rising prices. Japan's economy showed zero growth from 1974 to 1975 and
state managers in Europe's industrial powers were overwhelmed by high
unemployment and the ineffectiveness of traditional Keynesian remedies.
Corporate power had attained a global reach, first as multinationals and
then as transnationals, and in 1973 the corporate-political elite created a
corresponding policy-making institution, the Trilateral Commission, with the
"ungovernability of democracies" high on the agenda.
Within such an ambiance, a progressive criminology movement emerged
primarily at U.C. Berkeley's School of Criminology to challenge the
traditional guardians of order and to begin the work of transforming the
self-crippled discourse of technicians (to use Alvin Gouldner's phrase).
With its commitment to combining radical analysis with political organizing,
it is perhaps miraculous that the enterprise survived at all in what is
probably the most reactionary field in the social sciences. The progressive
criminology movement was international in scope: it was not confined to one
national culture, but varied in its cultural and political origins. It was
conditioned by the events of 1968 - the French May, the Italian "Hot
Autumn," the German 68er "cultural revolution" and student movement, and the
year of the barricade in the U.S., in short, the worldwide student rebellion
together with the My Lai massacre and Tet Offensive in Vietnam, the Soviet
occupation of Czechoslovakia, and Martin Luther King's assassination. In
1968, the School of Criminology at Berkeley had a radical presence that
actively promoted student power, antiwar and anti-imperialist politics, and
was close to the Black Panthers in Oakland. We were active in the
campus-wide strike led by the Third World Liberation Front in 1969, the
massive community and student struggle known as "People's Park," the
struggle against the use of behavioral modification and brain surgery in
prison, as well as the campaign for community control of the police in 1971.
The Bay Area Women Against Rape came into existence in 1971. In the summer
of 1972, the Union of Radical Criminologists (URC) was formed by a small
group of students and teachers at the Berkeley School of Criminology with
the aim of becoming a national organization, promoting radical ideas and
community projects, as well as supporting the victims of academic
repression.
The URC was not long lasting, but it served as an important transitional
organization. It had a hand in the anthology, Policing America, edited by
Tony Platt and Lynn Cooper. In 1973, the URC and NACLA jointly initiated the
Center for Research on Criminal Justice. Its research on repression and
national trends conducted for the purpose of serving organizations
struggling against the criminal justice system - culminated in the 1975
classic, The Iron Fist and the Velvet Glove: An Analysis of the U.S. Police.
Crime and Social Justice began as a task group within URC and commenced
publication in 1974. Its founders saw the need for a publication that would
"bring together the analyses and programs of people working to build a
movement to overcome the oppressive criminal justice system and the system
of exploitation it supports." A global perspective was built into the
initial issues because we saw that the U.S. government was involved in
developing and legitimizing repressive criminal justice systems around the
world. Indeed, to reduce criminology to domestic issues was to unnecessarily
restrict our understanding of repression and resistance. The journal has
endured, independent of institutional support, under various titles ever
since. Some publishing know-how carried over from staff members who had also
worked on Issues in Criminology (1965 to 1975), a publication of the
graduate students at Berkeley's School of Criminology that was an outgrowth
of the Free Speech Movement.
The editorial mandate of Social Justice has expanded over the years beyond
issues of crime, punishment, and social control to encompass globalism,
international human rights and civil rights domestically, border and
immigration issues, environmental victims and health and safety issues,
critiques of the state and welfare reform strategies, as well as analyses of
gender-and ethnicity-based inequalities. The journal remains true to its
initial task of debunking and transforming agency-determined criminal
justice research, but it has also incorporated elements of world-systems
analysis, which took shape in the 1970s as a form of critique capable of
explaining America's imperial role in the global system known as historical
capitalism. Articulate world-systems theorists, Immanuel Wallerstein and
Chris Chase-Dunn, belong to our advisory board, and Andre Gunder Frank
remains a valued contributor and at-large adviser. Incorporation of the
worldsystems perspective preceded, but was also reinforced by, the 1988
merger of Crime and Social Justice and Contemporary Marxism (1980 to 1987).
Many on the latter staff had been members of NACLA's West Coast office,
which accounts for much of the rich "Americanist" perspective that would
appear in the pages of Social Justice. Before the merger, the two journals
were projects of Global Options, a nonprofit institute in San Francisco
committed to research and advocacy on world affairs that was founded in
1986.
Uncommon Wealth:
The Contribution of Great Britain, Canada, and Australia
European critical criminologists established the largely academic,
left-ofcenter European Society for the Study of Deviance and Social Control,
whose first conference was organized by Mario Simondi, Stan Cohen, Ian
Taylor, and Karl Schumann in September 1973. Members of the Crime and Social
Justice Collective participated. The British component emerged in 1968 - a
year of student occupations in Britain, the emergence of Tariq Ali as a
student leader, an antiVietnam demonstration in London that turned into a
battle with police outside the U.S. embassy, and Enoch Powell's prediction
of "rivers of blood" in an impending race war - from a group consisting of
left activists Laurie Taylor, Stan Cohen, Mary McIntosh, Ian Taylor, Paul
Walton, and Jock Young. In 1973, the latter three, who became Contributing
Editors to our journal, published The New Criminology. This influential work
was an ironically titled critique, as it was a return to European grand
sociological theory, although some at the time would have preferred its
focus to be beyond criminology. A collective work, it had its origins in the
National Deviancy Conference, which was formed by the 1968 group and grew to
some 400 members who shared a dissatisfaction with European social democracy
and a desire to expose the criminogenic nature of British capitalism. This
United Kingdom-based body of sociologists and individuals involved in social
action (on behalf of squatters, radical social workers, and the prisoners'
union) did its best to support the group of radicals under attack at
Berkeley's School of Criminology.
Many of the original participants are still active, along with newer faces.2
From this group and others working along similar lines flowed a rich
literature, ranging from those of Stuart Hall and his associate's work at
the Birmingham Center for Contemporary Cultural Studies to "realist"
criminology, social control theory generally, and variants on postmodern
theory. Hall, long one of our Contributing Editors, was a major figure in
the revival of the British Left in the 1960s and 1970s and remains a
visionary race theorist in the 1990s. The work of this British group
resonated with that being done in the U.S. since the U.K. also experienced a
massive shift to coercion in the 1970s, with the "birth of the `law and
order' society," as Stuart Hall, Charles Critcher, Tony Jefferson, John
Clarke, and Brian Roberts argued in Policing the Crisis: Mugging, the State,
and Law and Order. The Labour government then in power presided over a
deteriorating economy, an annual inflation rate above 25%, unrest in
Northern Ireland, countercultural drug use, squatters, nonwhite immigration,
and a general "crisis of hegemony." The term "mugging" was imported from the
U.S. in the 1972 to 1973 period into British culture as an image and set of
relationships already condensed in U.S. law enforcement ideology - crime,
black youth, fear of social disorder, and the conviction that society had
become too permissive toward crime and criminals. Policing the Crisis made
good use of Marxist cultural theory inflected through Gramsci's theory of
hegemony and an Althusserian conception of the media as an ideological state
apparatus largely concerned with the reproduction of dominant ideologies.
Another important theorist, Paul Gilroy, also discussed the evolution of
"race" as a policing problem and the transformation of urban disturbances in
the 1970s into a race problem. Tony Bunyan made a significant contribution
with his The Political Police in Britain, through his work on the
now-defunct State Research, and through police monitoring units, including
that of the Greater London Council. Another critical approach came from
Christopher Williams, whose Environmental Victims (Vol. 23, No. 4) we
published in 1996. Currently, despite Prime Minister Tony Blair's
tough-on-crime stance, the British are even less secure in terms of
environmental and criminal victimization, and in terms of the workplace.
The Canadian movement, which was strongly influenced culturally and
politically by Europe and the U.S., began to congeal in 1975. Marie-Andr6e
Bertrand was a Contributing Editor to our journal at the time its first
issue appeared. She had experienced the wave of neoconservatism that
engulfed the Universite de Montreal in reaction to the 1968 uprisings before
coming to Berkeley asa visiting professor in 1973. 'Another early
participant, Yvon Dandurand, noted in 1975 that attempts to create a radical
criminology periodical had failed and that radical approaches to criminology
appeared in the community at large and in struggles for social justice (such
as Claire Culhane's work with the Prisoners' Rights Group, First Nations
struggles, and those concerned with police surveillance), rather than in
academia. Over 10 years later, when we published Canada and the U.S:
Criminal Justice Connections (CSJ No. 26, edited by R.S. Ratner), Canada
still lacked a radical criminology journal. That changed with the
inauguration of the Journal of Human Justice (1989-1995), spearheaded by
Chuck Reasons, Tulio Caputo, Brian MacLean, R.S. Ratner, Paul Havemann, and
others. (In 1996, that title continued as Critical Criminology: An
International Journal, a publication of the Critical Criminology Division of
the American Society of Criminology.)
In 1974, the Bathurst riot occurred in Australia, destroying the prison and
leading to aperiod of reform in the prison system. Gang violence and street
assaults were media and popular concerns in the mid-1960s and early 1970s, a
decade of relative affluence. Mass Vietnam protests, opposition to the 1972
South African rugby tour, and the rise of Koori (aboriginal) protest and
militancy generated a physical contest over public space, the streets, and a
volatile ideological climate into which issues of crime, especially "street
crime," were inserted. In this climate, the Alternative Criminology Journal
(1975 to 1981), edited by David Brown, sought to radicalize criminology by
ending its separation as a separate discipline, divorced from political
theory and political economy. Writing in Law in Context: A Socio-Legal
Journal (Pat O'Malley and Kit Carsen served on it Editorial Board), Adrian
Howe argued, as had Elliott Currie in 1974, that the point, however, was to
get out of criminology and to reconceptualize the whole terrain as a
sociology of law, crime, and criminalization. Although Australia had been
incorporated as a new subsystem in the world-system through the "Pacific Rim
Strategy," it has resisted some of the more punitive responses to a law and
order culture, such as "three strikes" legislation and the death penalty,
which American crime policy embodies. Some of this resistance comes to
Australia via Europe. In an "Australian response" to the theme of "Law and
Order for Progressives?" in our journal, Gill Boehringer, Dave Brown,
Brendan Edgeworth, Russell Hogg, and Ian Ramsay argued in favor of
broadening the debate over crime to include domestic violence, health and
safety, and the practices and control of state agencies such as the police.
Later, Pat O'Malley guest edited an issue of Social Justice entitled The
Politics of Empowerment in Australia (Vol. 16, No. 3, 1989) that fulfills
that objective while exploring Australia's role in the global system.
Italian Critical Currents
Events in Italy during our founding years paralleled many experienced in the
U.S., with several major exceptions. One was the amazing sea of red banners
during huge mobilizations of the Italian Communist Party, the labor
movement, and an insurgent extra-parliamentary Left I had witnessed during
Italy's "Hot Autumn" in 1969. Such wide-scale support for the "Italian Road
to Socialism" equally impressed members of Crime and Social Justice
Collective who attended the European Society for the Study of Deviance and
Social Control in Florence in 1973. Public confidence in the government had
plummeted and, by 1974, Italy briefly lacked a government altogether. The
Red Brigades emerged in the early 1970s, a time of worsening economic
problems and great political turbulence, with saber-rattling on the Right,
kidnappings, bombings of major Italian cities, and selective shootings,
especially of law enforcement officers. The CIA poured in millions of
dollars to prevent the Communists from coming to power (also a goal of the
Red Brigades) and trained the Italian security services to confront
disorders and student demonstrations, to prepare dossiers, and make use of
bank data and the tax returns of individual citizens. An aggressive Italian
judiciary and law-enforcement apparatus made innovative use of repentant and
confessed criminals turned state's witnesses, first to quell the Red
Brigades and then to take on the Mafia.
There was some exchange between the extra-parliamentary opposition (Lotta
Continua, Il Manifesto, and Potere Operaio) and intellectual circles and the
student movement. Lotta Continua was active in the prisoners' movement. At
the time, prisons were at the boiling point in Britain, the U.S., Australia,
Canada, and Italy. Not surprisingly, Dario Melossi and Massimo Pavarini
focused their work on the origins of the penitentiary system. Their The
Prison and the Factory builds on Marx' concept of primitive accumulation.
They reintroduced Georg Rusche and Otto Kirchheimer's Punishment and Social
Structure and later offered a critique of Michel Foucault's Discipline and
Punishment, which was influenced, like many of the works developed in that
milieu, by the theoretical work of Antonio Gramsci and Louis Althusser.
Melossi was a kindred spirit to our journal group and we had the pleasure of
meeting him during his brief research sojourn in Berkeley. He was a founder
and member of the Bologna School, which was responsible for the publication
of La Questione Criminale: Rivista di Ricerca e Dibattito su Devianza e
Controllo Sociale up to the 1980s and of Dei Delitti e delle Pene in the
1990s. Alessandro Baratta and Massimo Pavarini recently resuscitated Dei
Delitti e delle Pene (under the auspices of the Italian National Research
Council) after a three-year hiatus, with the aim of interpreting the changes
in crime and the social order within the processes of European integration
and economic globalization, of analyzing discourses on crime and punishment,
and of theorizing on issues such as the needs for safety and its relation to
constitutional and human rights. Others from the early period, including
Tamar Pitch, Vincenzo Ruggiero, and others, still work together through that
journal.
In 1989, members of the Social Justice Editorial Board would work with the
International League for the Rights and Liberation of Peoples to compile an
issue entitled Human Rights and People's Rights: Views from North and South.
The League was founded in 1976 by an Italian member of Parliament, Lelio
Basso, who before his death in 1978 made clear his belief that socialism
without democracy was not possible, just as a democratic order without
activism was not possible. We knew of Basso's work in the early 1970s, when
he presented a paper in Santiago, Chile, on the use of legality in the phase
of transition to socialism, as well as that of Giovanni Arrighi, who has
made an important contribution to the world-systems literature.
The Critical Legacy in Germany
In the Federal Republic of Germany, the SDS (Sozialistischer Deutscher
Studentenbund) became the core of a widespread student rebellion against
reactionary regimes in the Third World, against U.S. policy in Vietnam, and
against long-standing government attempts to supplement the constitution
with emergency laws that would confer dictatorial powers on the government
in the event of a political crisis at home or abroad. In 1968, the Young
Socialists - the organization of the younger members of the Social
Democratic Party - declared its opposition to the emergency legislation; the
student rebellion, increasingly under the banner of revolutionary socialist
slogans, also called for its immediate rejection. In April 1968, after a
right-wing attempt to assassinate SDS leader Rudi Dutschke (following
incitements especially in the reactionary Springer Press), riots erupted.
Berlin and other cities in West Germany saw the heaviest street fighting
since the Weimar Republic, and students and young workers throughout West
Germany invaded Springer's offices and burned its vans in protest. In a
major setback for the student movement, the government passed the emergency
legislation with only minor modifications. The over-escalation of radical
direct action tendencies that followed soon destroyed the SDS and led to the
disintegration of the nascent alliance between core groups in the
working-class trade union movement and the intellectual opposition.
This was the Germany I encountered in the summer of 1969, when I was working
in Libri Buchhandlung's Frankfurt warehouse and studying sociology part time
at the University of Mainz. An older factory worker who had quit the
Communist Party in disgust over Stalin's policies tutored me in "scientific
socialism" to offset my fascination with the ideas of the French
Situationist International ("All power to the imagination!"). It was not
until I returned to the U.S. that I became familiar with German critical
criminology.3 Much of that early work hadbeen organized under the banner of
the Arbeitskreis Junger Kriminologen (Working Party of Young
Criminologists). They began publishing Kriminologisches Journal in 1969 and
the journal continues to be associated with the University of Hamburg. Fritz
Sack, a central figure, was a visiting professor at the University of
California, Berkeley, in the mid-I960s and has been a contributor to Social
Justice. Another journal, Kritische Justiz, launched in 1968, survives today
with an editorial mandate to analyze the law and its practical application
in its social, economic, and political contexts. Similar to other countries,
there was serious contention over whether the new criminology should be
critical, radical, or Marxist. An article by Falco Werkentin, Michael
Hofferbert, and Michael Bauman that appeared in our second issue is entitled
"Criminology as Police Science or `How Old Is the New Criminology?"' (CSJ
No. 2, 1974). It reflects a Marxist perspective that distinguished itself
from an early critical approach of Fritz Sack, a "Marxist-interactionist
theory of criminology." Helmut Janssen, an editor of Radikale Kriminologie,
an anthology of primarily U.S.-based radical criminologists published in
German in 1988, claimed that a radical or Marxist criminology was never able
to develop in the Federal Republic of Germany because of the prohibition on
the German Communist Party (KPD), the Berufsverbot-a purge mandated by the
Right of the professions, including the civil service and education - the
fragmentation of the Left, and the absence of a university-level Marxist
school.
Yet critical criminology has deep roots in the "critical" social theory of
the Frankfurt Institute of Social Research (the "Frankfurt School").
Theorists like Max Horkheimer, Theodor Adorno, and Herbert Marcuse (a group
forced into exile in 1933 and then only reluctantly readmitted in 1945)
generated powerful critiques of structures of inequality, authority, and
power, as well as of ideological hegemony. Important for the 1968 movement
were theories drawing on the Frankfurt School, among others, that argued
that the working classes of the West had lost their revolutionary vocation,
and that the focus of such activity had shifted to the peoples of the Third
World and to marginalized sectors in the West, including immigrants, women,
and youth. The Frankfurt School also accomplished what Foucault's panopticon
theory of social control did not: it linked the concept of discipline (and
what this means culturally) with changes in the capitalist management of
work. Georg Rusche and Otto Kirchheimer's Punishment and Social Structure,
which was introduced by Horkheimer and ironically only appeared in German
translation in 1974, is a product of the Frankfurt School and was
repopularized during the crisis of the late 1960s and early 1970s after
years of neglect. The School has had other lasting impacts. Sebastian
Scheerer and Henner Hess, in their recent defense and reformulation of the
social control thesis against the steady encroachment of the concepts of
"discipline" and "social exclusion" draw on Marcuse's One Dimensional Man to
link his notion of "repressive tolerance," the harmless and sometimes
illusionary satisfaction of real or artificially induced needs, with social
control. After the events of 1989 (e.g., the collapse of the GDR), Jirgen
Habermas (once Adorno's assistant) cautioned the state-supporting legal
establishment that a constitutional state cannot be maintained without a
radical democracy.
Another aspect of Germany's new criminology is Falco Werkentin's work with
the Berlin-based Biirgerrechte and Polizei (Civil Rights and the Police,
CILIP). Since the mid-1970s, he has produced diverse research projects and
publications on German police history and on the politics of internal
security. As the anti-authoritarian revolts of the 1960s peaked, sectors of
the German New Left devolved into a wave of bombings, kidnappings, and
murders by groups such as the Baader-Meinhof/Red Army Faction. Beginning in
the 1970s, this triggered an unprecedented enlargement and reconstruction of
police and secret services in the Federal Republic. No federal police force
like the FBI existed in Germany before the Red Army Faction terrorist
campaign of the 1970s. To allay fears that another Hitler might arise, West
Germany's post-World War II constitution had established a very loose
confederation of states (Lander), each with its own police. The terrorist
threat was a pretext for the Lander to cede some of their power and
strengthen the federal border police (BKA) into an FBI-like institution.
After unification with East Germany, the basis for expansion of police power
shifted from the terrorism of the 1970s to the dangers of atomic technology
and the destruction of the environment to the drug trade and right-wing
extremism.
In 1986, I returned to Frankfurt to participate in a symposium organized by
Heinz Dieterich on "State Terrorism in the Third World." Papers by Noam
Chomsky and James Petras (both members of our Editorial Advisory Board) as
well as by Edward S. Herman were eventually published in our special issue,
Contragate and Counterterrorism: A Global Perspective (CSJ 27-28, 1987). I
reconnected with Falco Werkentin in Berlin as well as with the delightful
editor of Das Argument, Wolfgang F. Haug, at the Freie Universitat Berlin. I
was also fortunate to meet world-systems theorists at the Starnberg
Institute for Research on Global Structures, Developments, and Crises.
Folker Frobel, Jorgen Heinrichs, and Otto Kreye had just published Umbruch
in der Weltwirtschaft (which can be translated as reorganization of or
revolutionary change in the world economy), an exploration into the new
international division of labor and the crisis of the capitalist world
system. That April of 1986 truly felt like a crisis, if only because
radioactive fallout from the Chernobyl disaster was raining down on Germany,
on me, and, by coincidence, on Pat O'Malley, the Australian theorist.
In 1974, the architect of Ostpolitik, the Social Democrat Willy Brandt, had
been forced to resign because of a spy scandal involving East Germany and
was succeeded by Helmut Schmidt. That year, rapid inflation was accompanied
by rising unemployment and was exacerbated by the presence of four million
guest workers and their families. The crisis passed, but a more
revolutionary event would later envelop the East. Just months beforluence,
though, was a brief interlude in which some policies of the former Soviet
Union were at times uncritically accepted.
7. The Critical Criminology Division has 320 members (under 190 faculty
members and under 90 students and other researchers), although I have also
seen a total figure of over 400. Both the Marxist section and the Political
Economy of the World-System (PEWS) section of the American Sociological
Association struggle each year to reach 400 members.
GREGoRY SHANK is the Managing Editor of Social Justice (GregoryS9 @aol.com).
He was a member of the original Crime and Social Justice Collective.
Shank describes what was happening in 1974 in terms of the
political-economic conditions and social movements that propelled the
unlikely emergence of a radical criminology around the world.
Copyright Social Justice Summer 1999 
Sources:UMI 
SOCIAL JUSTICE 07/1999 
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27Jun1999 BRASIL: Tendências internacionais - Gilson Schwartz - Urubus e
passarinhos. 
São Paulo, Domingo, 27 de Junho de 1999

LIÇÑES CONTEMPORÂNEAS
Urubus e passarinhos
LUIZ GONZAGA BELLUZZO

Charles Klindelberger, escrevendo sobre o crash de 1929, dizia que a
posteriori é fácil ironizar as hipóteses que, naquela ocasião, procuravam
justificar as taxas elevadas de capitalização das ações. Os gurus então
encastelados nas colunas das revistas e dos jornais não se cansavam de
proclamar uma nova era de prosperidade capaz de assegurar uma elevação
continuada dos preços.
Nem o respeitável economista Irving Fisher escapou à tentação de afirmar, às
vésperas do crash, que os preços das ações ainda eram modestos, diante da
força de acumulação de lucros das empresas americanas. Tais "teorias",
diga-se, não eram diferentes das que vêm encontrando acolhida entusiasmada,
neste final de século, na literatura de divulgação "especializada".
Klindelberger negava que os níveis de preços e os volumes de transações
fossem exagerados, apontando "os precários mecanismos de crédito" como os
responsáveis pelo colapso de 1929.
A economista Jane D'Arista, do Financial Markets Center, analisando os dados
mais recentes do Federal Reserve sobre o comportamento do crédito e do
endividamento nos Estados Unidos, revela aspectos interessantes do atual
ciclo de valorização de ativos. Desde o começo dos anos 90, as corporações
do setor financeiro vêm se endividando a um ritmo muito superior àquele
apresentado pelas empresas e famílias que compõem o chamado setor
não-financeiro.
Entre 1992 e o primeiro trimestre de 1999, a dívida das famílias e das
empresas produtivas cresceu 36%, contra 124% do setor financeiro. Ao longo
da década, os empréstimos anuais do setor não-financeiro passaram de dois
terços para menos de 50% do total. O relatório do Federal Reserve, "Flows of
Funds Accounts of the United States", de 1998, mostra ainda que, a despeito
do aumento espetacular de US$ 2.661,7 bilhões no valor do estoque de ações,
a colocação líquida de papéis foi negativa.
Nos últimos cinco anos, ações no valor de US$ 544,6 bilhões foram retiradas
do mercado, devido aos movimentos de fusões, aquisições e à compra de papéis
da própria empresa para evitar a transferência selvagem da propriedade.
O uso abundante do crédito para alavancar posições especulativas não se
restringe aos mercados à vista, mas se estende aos mercados futuros de
índices, taxas de juros e câmbio. Desde 1992, dobrou o valor dos ativos e
passivos dos "dealers" e "brokers". Agora, como nos anos 20, parece que vem
se ampliando desmesuradamente a demanda de crédito destinada à circulação
financeira. E esse é um sinal mais seguro da existência de uma "bolha" do
que a própria evolução dos preços dos ativos.
A grande diferença, entre ontem e hoje, parece estar na capacidade das
autoridades monetárias em empreender intervenções de últimas instâncias para
conter os colapsos de preços dos ativos e para reverter as contrações do
crédito que se sucedem a esses episódios. Alguns analistas desconfiam, no
entanto, que a peculiaridade da atual conjuntura internacional reside na
convivência entre forças contraditórias: 1) tendências à deflação ou ao
crescimento lento dos preços nos mercados de bens e serviços; e 2) surtos
recorrentes de aceleração de preços nos mercados de ativos financeiros e
reais cuja oferta é inelástica a curto prazo.
A política monetária norte-americana opera, portanto, entre o objetivo de
prevenir a ampliação da discrepância entre o movimento dos preços da
produção corrente e a necessidade de regular a "exuberância irracional" dos
mercados financeiros, tentando evitar a formação de bolhas especulativas, ou
seja, a explosão descontrolada dos preços das ações. Um hipotético rearranjo
de portfólios, acompanhado de uma correção de preços das ações, dando início
a um ciclo "baixista" nos mercados financeiros americanos, pode colocar as
autoridades monetárias americanas diante de decisões complicadas.
Diante da integração dos mercados financeiros, não seria improvável uma fuga
dos ativos denominados em dólares. O temor da saída de capitais recomendaria
a manutenção ou até mesmo a subida dos juros de curto prazo. Tais medidas
poderiam, no entanto, tornar mais agudo e rápido o processo de
"encolhimento" da bolha formada pelo crescimento desmesurado dos preços dos
ativos financeiros. Um colapso abrupto dos preços e a inevitável contração
do crédito levariam inevitavelmente a economia à depressão. Será preciso
muito engenho, arte e coordenação entre as políticas monetárias para conter
os movimentos cumulativos e de auto-reforço desencadeados pela deflação de
ativos e pelo "credit crunch".
O desenvolvimento da economia capitalista neste final de século parece dar
guarida à idéia de Giovanni Arrighi de que a predominância do capital
financeiro sinaliza o outono dos grandes ciclos de expansão do capitalismo.
No entanto, comparado com etapas anteriores, o outono do final do século 20
se apresenta como uma síntese "expressionista" dos predecessores. A
"financeirização" e a correspondente valorização fictícia da riqueza, como
nunca, vêm subordinando a dinâmica da economia.

Luiz Gonzaga Belluzzo, 55, é professor titular de Economia da Unicamp
(Universidade de Campinas). Foi chefe da Secretaria Especial de Assuntos
Econômicos do Ministério da Fazenda (governo Sarney) e secretário de Ciência
e Tecnologia do Estado de São Paulo (governo Quércia).

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 27/06/1999 
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12Dec1998 ITALIA: Karl Marx, nostalgia di un'icona. 
COMUNISTI Da Ingrao a Parlato, le voci dei partecipanti al convegno sui 150
anni del "Manifesto"

- COMUNISTI Da Ingrao a Parlato, le voci dei partecipanti al convegno sui
150 anni del "Manifesto"
Karl Marx, nostalgia di un'icona

"Marxisti e antimarxisti, amici e nemici, tutti hanno avuto a che fare con
quella barba. Una barba che non a caso e' diventata anche un'icona" scherza
ma non troppo Pietro Ingrao, avviandosi al convegno di studi dedicato al
"Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels 150 anni
dopo". I lavori, iniziati ieri mattina, si concluderanno questo pomeriggio.
Si tratta, sul piano strettamente cronistico (un bilancio scientifico
dell'incontro sara' possibile solo a posteriori), di un'occasione a suo modo
unica. Nella grande aula a piano terreno, che ospita la Biblioteca della
Camera dei Deputati, si sono infatti dati appuntamento molti fra i piu'
collaudati studiosi italiani (e non) del marxismo. A organizzare questo
festival del pensiero della sinistra piu' ortodossa sono stati alcuni organi
di stampa: "il manifesto", "Critica marxista", "Finesecolo", con il Comune
di Roma. In sala ieri mattina c'era una significativa rappresentanza di
politologi illustri, chierici del marxismo, leader della "gauche" con mezzo
secolo di battaglie alle spalle, veterocomunisti e qualche eretico. Porte
aperte anche per gli oppositori purche' colti e garbatamente costruttivi.
L'eta' media degli oratori, a fidarsi d'un rapido colpo d'occhio, supera i
cinquant'anni ma fra il pubblico non mancano i giovani, gli studenti.
Hanno parlato o parleranno oggi, fra gli altri, Valentino Parlato, Rossana
Rossanda, Aldo Natoli, Mario Tronti, Giacomo Marramao, Aldo Tortorella,
Gianni Vattimo. "Posto che la storia degli ultimi 150 anni e'
incomprensibile senza Marx, stiamo cercando di riflettere su cio' che e'
vivo e cio' che e' superato nel suo pensiero" riassume Ingrao, che sembra
fare dell'intransigenza ideologica una valida diga contro le malinconie
dell'eta'. Quella che propongono i vari oratori e', in sostanza, una
verifica di Marx nella filosofia, nella politica, nell'economia. A questo
riguardo c'e' da credere che Gyorgy Lukacs, l'autore di "Storia e coscienza
di classe", si stia rivoltando nella tomba: nel programma non viene,
infatti, dato alcuno spazio al rapporto fra marxismo e arte, fra marxismo e
critica letteraria. Parlato, a cui chiediamo di spiegarci il perche',
scrolla le spalle. "L'argomento del convegno e' il "Manifesto del Partito
comunista" e l'argomento del "Manifesto" non e' l'arte e nemmeno la
letteratura". Non si puo' tuttavia fare a meno di sospettare, guardando
anche ai nominativi degli invitati, che in questo momento alla sinistra
marxista interessino meno d'un tempo i cosidetti intellettuali, gli
scrittori. Il motivo? Mancano quasi del tutto ormai, nel panorama italiano,
i nomi carismatici. Quelli che possono davvero aiutare in un momento di
crisi, facendo da esca ideologica o da motore del consenso.
Non sono mancate, nella prima giornata di lavori, le critiche al
"Manifesto". Le prime sono state mosse da Giovanni Arrighi. La sua relazione
ha infatti messo in evidenza come, nel "Manifesto" di Marx e Engels, ci
siano due limiti storico - teorici. "Il primo riguarda il ruolo degli Stati
e dei loro apparati militari nelle fasi di formazione del mercato globale.
Il secondo concerne il ruolo delle identita' razziali ed etniche nel
processo di formazione di classi e gruppi sociali. Il superamento di questi
limiti rimane il grande problema irrisolto delle forze politiche che si
richiamano ai principi enunciati nel "Manifesto"".
Antonio Debenedetti.

(c) CORRIERE DELLA SERA. 
Sources:CORRIERE DELLA SERA (ITALIAN LANGUAGE) 12/12/1998 
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26Nov1998 UK: Historical Notes - Capitalism and the art of warfare. 
By Finian Cunningham.
FROM A Renaissance landscape of the crucified God to the desolation of a
solitary soldier impaled on the barbed wire of a First World War battlefield
may seem a preposterous leap of the imagination. Yet there is a solid
historical connect-ion: money and the art of statecraft.
From the earliest capitalist economic activity in the 13th-and 14th-century
city-states of Florence, Venice and Genoa, to the present-day global
economy, there are identifiable cycles of capital accumulation followed by
periods of stagnation and rebirth.
These cycles are characterised by the hegemony of a particular state. Thus
the earliest world economy was galvanised by the cluster of northern Italian
metropoles. Subsequently, the hegemonic role in the world economy was taken
up by the United Provinces of Holland, the United Kingdom and finally the
United States of America.
While the principal motive force for these historical cycles may be
attributed to the over-riding imperative of maximising financial profit,
each hegemon has left its distinctive stamp: the northern Italian metropoles
pioneered mechanisms of finance and inter-state diplomacy; the Dutch
bequeathed the Westphalia System, the founding concept of nation states; the
British expanded the system of free markets in line with territorial
possession of empire; while under the Pax Americana of the 20th century was
born the market-transcending system of global corporate capitalism.
In these cycles are two periods - the demise of hegemony under the Italian
city-states in the 15th century and under Britain at the cusp of the 19th
century - which are of strikingly similar circumstance but with strikingly
different outcomes. In both cases, capital was threatened by stagnation, and
as a result retreated to safer investment havens.
In the Mediterranean, idle finance sought shelter through patronage of the
arts. Cultural products, in the form of architecture and paintings, were
bought up by capital which could not find more profitable expression.
To be sure, there were less benign contemporaneous manifestations. The rival
Italian city-states found profitable outlet in financing English and French
combatants during their Hundred Years War (1337-1453). And it was frustrated
Genoese financiers who propelled the Iberian explorers into conquest of new
territories and trade routes to the West, thereby setting the stage for
wholesale slaughter and slavery in the Americas.
Nonetheless, an abiding legacy of these birth pangs of the capitalist world
economy was the cultural Renaissance in art, literature and philosophy - the
central subject of which probably being the "God who was crucified so that
mankind might live."
Four centuries later, however, and with the quantum jump of a second
industrial revolution based on petroleum combustion engines, idle finance
found expression in scientific militarism.
British capital, the hegemon of the day, was being choked by, on the one
hand, huge profits flowing in from its free-trade empire, and, on the other,
by an under-invested and glutted national economy. The safest outlet for
British capital liquidity was in fuelling an unprecedented armaments
industry.
Pretty soon the national economy was being marshalled by ineluctable
capitalist logic in the art of warfare. It was only a matter of time before
diplomatic infraction by a rival state would ignite the conflagration of the
First World War.
Today there are again foreboding elements: economic stagnation, an insecure
sense of the end of (American) empire and a proclivity for militaristic
diplomacy. Perhaps this time we might learn from history to crucify the gods
of money, power and statecraft rather than human beings.
`The Long Twentieth Century: money, power and the origins of our times', by
Giovanni Arrighi, is published by Verso (£15). 
Sources:INDEPENDENT 26/11/1998 P7 
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22Jun1998 BRASIL: Crise asiática vai ter longa duração, prevê economista. 
São Paulo, segunda, 22 de junho de 1998

CARLOS HENRIQUE SANTIAGO
da Agência Folha, em Belo Horizonte

A crise que afeta a Ásia é o preâmbulo do que pode acontecer no mundo "nos
próximos dez anos, talvez 20". A afirmação é do economista e historiador
italiano Giovanni Arrighi, 60, professor da Universidade John Hopkins, em
Maryland (EUA).
Para Arrighi, o fenômeno é global e sua solução está além da capacidade de
um país isoladamente. Ele afirma, porém, que isso não significa que a
situação vai piorar em todos os lugares - depende das medidas que os países
tomem para se proteger.
Ao mesmo tempo, o economista não crê que os EUA possam manter seu papel de
protagonista no cenário mundial. "Assistiremos ao fim dessa era", afirmou
ele, em entrevista exclusiva à Folha.
Arrighi esteve no Brasil na semana passada lançando o livro "A Ilusão do
Desenvolvimento" (editora Vozes), a convite da Prefeitura de Belo Horizonte
(MG). Leia a seguir os principais trechos da entrevista.
Folha - Quais as consequências da crise no Japão para a economia mundial?
Giovanni Arrighi - A questão é se a crise pode ser contida na Ásia ou se vai
se espalhar, pois já se espalhou para a Rússia, onde a Bolsa de Valores
entrou em colapso. A economia russa já estava em péssimo estado.
Minha previsão é que isso é apenas o preâmbulo de coisas que virão, se não
agora, daqui a dez anos, talvez 20. O que nós vamos ter é uma série de
crises, porque não há um país ou um grupo de países em condições de resolver
a crise, que é global. O Japão não é capaz.
Folha - A Ásia vai superar essa crise como a América Latina superou a crise
dos anos 80?
Arrighi - A América Latina ainda não superou os anos 80. Nos anos 90, os
países só recuperaram parte do que haviam perdido. A distância entre a
América Latina e os países ricos é maior do que era há 20 anos.
Acho que o paralelo com a América Latina deve ser feito com países como a
Malásia, Indonésia ou Tailândia, mas não com as cidades-Estados como
Cingapura ou mesmo Taiwan, que não estão sendo afetados até agora.
A grande questão na Ásia é a China, porque esta crise dos países pobres
asiáticos está relacionada de perto com os avanços da China, que está
subindo (entre os países semiperiféricos), e isso cria tensões no mercado.
Folha - A China pode ampliar seu poder econômico com a crise na economia
japonesa?
Arrighi - É muito difícil dizer até onde a expansão chinesa pode ir, mas a
verdade é que os chineses têm sido muito realistas com relação ao mercado
mundial. Quando eles vêem que o crescimento está indo muito rápido, pisam no
freio.
A Coréia do Sul, por exemplo, antes da crise, estava crescendo a níveis
insustentáveis, estava indo para mercados que superam sua capacidade, como a
indústria automobilística. Mas não é só isso, estava crescendo de modo
extremamente rápido em todos os tipos de indústrias.
Folha - A desvalorização do yuan pode ser benéfica para a China?
Arrighi - O dólar está altamente supervalorizado neste momento e, assim, as
flutuações nos valores de câmbio são algo que se pode promover em certas
circunstâncias.
Essa é a razão porque Taiwan não foi atingido pela crise - porque enquanto
as outras taxas de câmbio com relação ao dólar estavam se valorizando, eles
desvalorizaram. Dessa forma, não perderam grande quantidade de dinheiro
tentando conter a especulação.
O fato de que a moeda chinesa possa ser depreciada em relação ao dólar não
significa que está desvalorizada em geral, em relação a outros países.
Também tem de se observar por quanto tempo a supervalorização do dólar vai
continuar.
Folha - O Brasil pode ser atingido pela crise no Japão?
Arrighi - O Brasil já foi atingido. Nos últimos cinco ou seis meses, houve
uma contração nas taxas de crescimento e aumento do desemprego. Antes que as
coisas melhorem, elas vão piorar globalmente. Isso não significa que vai
ficar pior em todos os lugares. Isso depende do que os brasileiros vão fazer
para se proteger. Não tenho uma receita, porque não conheço o suficiente
sobre a economia brasileira.
Folha - Em seu livro, o sr. cita uma obra de Fernando Henrique Cardoso,
"Dependência e Desenvolvimento na América Latina". O sr. pode comentá-la?
Arrighi - O aspecto positivo da teoria da dependência era enfatizar o fato
de que a estrutura de países tipicamente dependentes não impede seu
movimento em relação a outros países mais ricos.
O problema é que o que Cardoso e (o chileno Enzo) Faletto (co-autor do
livro) parecem entender como desenvolvimento era industrialização e
modernização. Países pobres e semiperiféricos se modernizaram rapidamente,
mas não reduziram a diferença com os países ricos em termos de renda. Há uma
identificação entre modernização e desenvolvimento que não é sustentada
pelos fatos.
Folha - Os EUA também vão sofrer com a crise no Japão?
Arrighi - A "bolha" da economia que explodiu no Japão ainda está para
explodir nos EUA. Cedo ou tarde, ela terá de explodir. Os EUA têm de
enfrentar essa situação, pois seu aparato político-militar não é forte
quanto parece. Eles não podem bombardear qualquer país como fizeram com o
Iraque. Oito anos depois, todos os aliados na Guerra do Golfo são contra sua
repetição, também porque os EUA não pagaram os custos financeiros - que
foram pagos pelo Japão, Alemanha etc. Existe um limite naquilo que os EUA
podem fazer com o dinheiro dos outros.
Folha - Em "A Ilusão do Desenvolvimento", o sr. diz que a expansão
industrial chinesa pode antecipar a expansão do caos do resto do mundo para
aquela região...
Arrighi - Desde que os EUA deixaram o Vietnã, as relações na Ásia têm sido
relativamente pacíficas. Ao mesmo tempo, os EUA têm pressionado os países a
abrir os mercados, liquidar indústrias etc. E há fortes movimentos sociais
que vão beneficiar a Ásia.
Mas também há conflitos internos e o cenário de caos mundial pode aumentar
as tensões, levando à abertura na China, o que não acho provável. Vai ser um
desastre para o mundo todo, porque não está claro o que poderia acontecer.
Mas não acho que a abertura na China seja um cenário provável.
Folha - Será o fim de uma era de hegemonia dos EUA?
Arrighi - As eras não terminam em um dia. O começo do fim da era da
hegemonia norte-americana começou nos anos 60 e 70. O fim ainda está por
vir. Penso que nós assistiremos ao fim desta era, mas ele ainda não chegou.

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 22/06/98 
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16Jun1998 BRASIL: Economista italiano não vê vantagem nos dólares. 
São Paulo, terça, 16 de junho de 1998

da Agência Folha, em Belo Horizonte
O economista italiano Giovanni Arrighi acredita que nenhum país necessita de
"investimento" estrangeiro para sobreviver. "Qual país enriqueceu com
empréstimos dos Estados Unidos?", pergunta.
Giovanni Arrighi é economista, historiador e sociólogo. É co-diretor do
Departamento de Sociologia da State University of New York at Binghamton e
professor visitante da Universidade da Califórnia (EUA). É autor, entre
outros, dos livros "O Longo Século 20. Dinheiro, Poder e as Origens do Nosso
Tempo" e "A ilusão do desenvolvimento".
Ele está no Brasil a convite do programa "Conferências do Centenário", da
Secretaria de Cultura de Belo Horizonte.
Crítico das teses neoliberais, o economista acha que o único país que leva
vantagem quando recebe fluxo externo de capitais é aquele que tem uma "forte
posição" no cenário mundial.
Um exemplo, segundo ele, seria a China, "que tem um grande mercado
consumidor interno e pode negociar com este capital (estrangeiro)". Nos
ditos "países emergentes", a estabilidade deveria ser garantida com reformas
estruturais e sociais e não à base de injeções monetárias de países
desenvolvidos, afirma.
"Uma família pobre, para sair da crise, não pode se endividar mais, tem de
procurar cortar aqui, cortar ali", diz.
Arrighi também é crítico em relação às privatizações, pois em geral são
vendidas as que dão lucro

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 16/06/98 
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26May1998 BRASIL: Artigo - Joaquim Francisco de Carvalho - Globalização e
neocolonialismo. 
São Paulo, terça, 26 de maio de 1998

JOAQUIM FRANCISCO DE CARVALHO

O ex-ministro Rubens Ricupero, em ótimo artigo aqui publicado no dia 2 de
maio, falou das negociações que há dois anos desenrolam-se na OCDE
(Organização para Cooperação e o Desenvolvimento Econômico) para aprovar o
Acordo Multilateral de Investimentos, cujo objetivo é, em última análise,
esvaziar governos nacionais e transferir do setor produtivo para o capital
financeiro todo o poder de decisão sobre investimentos industriais, proteção
ao meio ambiente, normas fiscais e de remessa de lucros e até políticas
sociais.
Seria, por assim dizer, uma espécie de neocolonialismo cibernético, sem
metrópole geográfica definida. De resto, talvez seja precisamente essa
indefinição geográfica que, por sorte, dificulta a concretização do acordo,
pois todos temem que a metrópole se localize em outro país que não o seu.
Paradoxalmente, o Brasil, a Argentina e o Chile, simples observadores na
OCDE, concordavam com tudo, pois nossos governantes consideram que não fica
bem opor resistência à globalização, nem naqueles pontos em que esta nos
submete à mais voraz exploração. Só assim se explica que bancos e
corporações de países desenvolvidos aqui entrem livremente para apropriar-se
de empresas estatais que controlam o imenso faturamento assegurado por
monopólios naturais, como os serviços de eletricidade.
Temos aí uma amostra do esforço dos países industrializados para substituir
o atual modelo de repartição da renda mundial, que dá claros sinais de
esgotamento, por mecanismos mais eficientes para manter os processos de
apropriação de riquezas das antigas colônias e de transferência de lucros de
setores produtivos para setores intermediários e atividades especulativas,
típicas dos mercados globalizados.
Mas nada disso é inteiramente novo. De acordo com J.L. Seitz, em "A Política
do Desenvolvimento" (Jorge Zahar Editor, 1991), "os sistemas políticos e
sociais que se estabeleceram nas ex-colônias também servem para manter na
pobreza a maioria das nações em desenvolvimento. Elites locais, formadas sob
domínio colonial, aprenderam a beneficiar-se da dominação. Criaram-se aí
duas sociedades: uma relativamente moderna e rica, girando em torno do setor
exportador; a outra (o restante do povo) muito pobre, que vivia no sistema
tradicional. Com os processos de independência, as elites locais tornaram-se
elites governantes e adquiriram hábitos das elites européias (...) a
dominação econômica é hoje exercida pela empresa multinacional".
Em entrevista ao "Jornal do Brasil" de 16/6/96, o sociólogo francês Jacques
Rancière observou: "Dizem que as leis econômicas são inevitáveis. Ora, a
política deve ser o campo do possível, não o campo do inevitável. É
importante que possa haver escolha. No entanto, políticos, economistas,
tecnocratas e empresários, todos, impõem-nos leis inexoráveis, que temos que
seguir. O movimento das privatizações na França inclui-se nessa lógica. Há
um discurso de que é uma mudança inevitável, contra a qual não há nada a
opor. Mas percebe-se que há, nas privatizações, uma investida contra um
mundo público, igualitário, viabilizado por transportes, energia, escolas e
saúde pública em condições iguais para todos, sejam pobres ou ricos".
Como sintetizando esses pensamentos, o economista e cientista social
italiano Giovanni Arrighi (atualmente professor titular na Universidade de
Binghampton, EUA) declarou, em entrevista ao "JB" de 9/11/97, que "os países
pobres, ou relativamente pobres, são irresponsáveis quando entram (na
globalização), acreditando que devem fazer concessões ao capital para se
tornar competitivos. Isso é ingênuo, pois o capital tem sempre um custo".
"De fato, os países que mais receberam capitais externos são precisamente
aqueles que agora estão em crise mais profunda, como a Indonésia e a
Tailândia. É ingênuo pensar que é preciso se curvar perante o capital para
criar condições de integração de um país à economia mundial. O que provoca
desastres é que as pessoas entram na globalização com uma idéia muito
ingênua do que poderia ser obtido com isso, aceitando níveis de sacrifício
que jamais trarão os frutos esperados."
Se nossos governantes esquecessem as viagens frívolas pela Europa e, por uma
vez, refletissem seriamente sobre essas manifestações dos citados
intelectuais europeus, veriam que a privatização globalizante dos monopólios
de serviços públicos reconduzirá o Brasil à situação de colônia. Aliás, o
presidente da República declarou recentemente, em Genebra, que "não gosta da
globalização". Cabe então perguntar onde está sua coerência, pois seu
governo, por meio do BNDES, comanda afoitamente o processo.

Joaquim Francisco de Carvalho, 62, engenheiro do setor elétrico, é consultor
para assuntos de energia. Foi coordenador do setor industrial do Ministério
do Planejamento (governos Castello Branco, Costa e Silva e Médici) e diretor
da Nuclen Engenharia e Serviços S/A.

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 26/05/98 
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13May1998 ITALIA: EUROPA I campanili da abbattere. 
Di DEAGLIO MARIO.
POCO meno di duemila anni fa, un sistema stradale si dipanava per migliaia
di chilometri dalle frontiere della Scozia ai deserti persiani; nel porto di
Ostia attraccavano navi cariche di grano del Nord Africa, ambra del Baltico
e metalli spagnoli. E passarono quasi millecinquecento anni prima che
l'Europa raggiungesse un'analoga organizzazione e un analogo volume di
traffico. Tutto cio' dava ai contemporanei un senso di vertigine e un'acuta
coscienza del cambiamento. Considerando lo stato del mondo, Lucio Anneo
Seneca, filosofo e consigliere politico dell'imperatore Nerone, poteva
affermare, nel secondo atto della Medea: "In questo universo percorso
dall'audacia umana, niente e' piu' al suo posto. L'indiano si disseta nelle
acqua ghiacciate dell'Arasse (un fiume caucasico), i persiani bevono l'acqua
dell'Elba e del Reno". Chi considera la scena mondiale di oggi non puo' non
condividere l'osservazione di Seneca, l'audacia e l'ingegno umano hanno
trasformato il nostro universo rendendolo irriconoscibile. L'elettronica,
Internet, le biotecnologie - e l'elenco potrebbe continuare - ci consentono
di affermare che nulla si trova piu' in quello che le generazioni non piu'
giovanissime possono considerare "il suo posto". Messicani e nordafricani,
europei dell'Est e indiani bevono l'acqua dei fiumi del Nord America e del
Nord Europa. Seneca, del resto, spagnolo di nascita, faceva parte di
un'elite intellettuale-burocratica delle piu' diverse origini, ma che si
esprimeva correttamente in latino come oggi un'elite mondiale di
intellettuali funzionari e uomini d'affari internazionali si esprime in
inglese. Ed e' suggestivo ricordare, come fa, in un recente saggio, Zbigniew
Brzezinski, anch'egli - come Seneca, si parva licet - intellettuale emigrato
e divenuto, negli Anni Settanta, consigliere politico di un moderno
imperatore (il presidente americano Jimmy Carter), che l'impero romano al
culmine della sua potenza disponeva fuori d'Italia di circa trecentomila
uomini in armi mentre le truppe americane di base all'estero sono 296 mila.
Il saggio di Brzezinski (recentemente tradotto in italiano per i tipi di
Longanesi con il titolo La grande scacchiera - Il mondo e la politica
nell'era della supremazia americana) e' l'esempio piu' recente dell'ansia di
rileggere la storia del mondo alla luce della nostra situazione attuale per
ricercarvi illuminanti analogie. In un quadro economico, politico, sociale e
tecnologico non assestato, questa rilettura porta inevitabilmente a
infrangere, alla ricerca di nuove sintesi, le rigide barriere professionali
che separano le varie discipline che si occupano dell'uomo. Ecco allora
Brzezinski, professore di politica estera alla John Hopkins University,
sentire il bisogno di un'ampia sintesi storica sulla quale poggiare la sua
originale analisi politico-strategica, mentre storici come l'inglese Paul
Kennedy dell'Universita' di Yale, si sono spinti nella direzione opposta
oltre i confini della storia, per affrontare il dibattito
politico-strategico sul possibile declino futuro della potenza americana.
Proprio il libro di Kennedy sull'ascesa e la caduta delle grandi potenze,
scritto dieci anni fa, puo' essere considerato come il capostipite di un
dibattito interdisciplinare sempre piu' appassionato e ricco di fascino in
un mondo che, per costruire il suo futuro, e' portato a rileggere il suo
passato. Alla vitalita' del pensiero anglosassone, in questa ricerca di
interpretazioni del cambiamento in corso, fa riscontro una certa
arretratezza del dibattito europeo continentale. Se l'Europa che si viene
creando e' quella delle banche e dell'Euro, cio' deriva anche
dall'incapacita' delle altre componenti della societa' europea di
raggiungere una "massa critica", e' piu' facile che gli accademici italiani,
francesi e tedeschi colloquino con i loro colleghi anglosassoni che tra di
loro (e se cio' avviene, sempre piu' spesso il colloquio si svolge in
inglese). E mentre gli imprenditori trovano un linguaggio comune
nell'economia globale, nei listini delle Borse, nei programmi delle Business
schools, sindacalisti, politici, professionisti rimangono fortemente legati
a realta' nazionali ormai sul punto di essere superate. I "prodotti
culturali" europei nelle scienze umane, dai libri di storia ai testi di
economia, continuano cosi' tranne pochissime eccezioni a essere
visceralmente radicati nelle tradizioni culturali nazionali. Il continente
che ci aveva dato in passato poderose sintesi universali, da Adam Smith a
Karl Marx, fino ad arrivare in questo secolo a Keynes e Braudel, pare
addormentato nello specialismo e nel campanilismo. Anche il recente bel
saggio dell'economista francese Jean-Paul Fitoussi (tradotto in Italia dal
Mulino con il titolo Il dibattito proibito, Moneta, Europa, poverta') che
pure rappresenta uno sforzo rigoroso di inquadramento generale, risente un
poco di un'impostazione francocentrica. "Fare l'Europa" da un punto di vista
culturale significa oggi darsi ragione del mondo in cui niente e' piu' al
suo posto e cercare di prendere le coordinate di questo universo ribollente,
definendo al suo interno il ruolo della nuova aggregazione
politico-economica europea ormai ai nastri di partenza. Significa rendersi
conto che per il moderno immigrato extracomunitario che si insedia
sull'Elba, sul Reno o sul Po, come per il moderno businessman statunitense
alla ricerca di occasioni di nuove attivita' su questa sponda
dell'Atlantico, le differenze tra i vari Paesi del vecchio continente
appaiono marginali. Una simile presa di coscienza puo' essere considerata
compito storico degli intellettuali europei alla vigilia dell'unificazione,
se l'Europa e' veramente destinata ad avere un futuro. Ed e' interessante a
questo proposito segnalare tre contributi italiani, diversissimi tra loro,
che segnano in qualche modo un risveglio alle grandi tematiche planetarie.
Il primo - segno dei tempi - e' stato scritto in inglese nel 1994 da
Giovanni Arrighi, un italiano che insegna in un'universita' americana.
Allievo di Braudel e di Wallerstein, Arrighi legge la storia in tempi lunghi
e ne Il lungo XX secolo. Denaro, pote re e le origini del nostro tempo,
pubblicato in Italia due anni piu' tardi da il Saggiatore, offre una sintesi
affascinante e per nulla encomiastica di quel grandioso fenomeno storico che
e' il capitalismo. Il secondo e' invece un grande progetto di storia
dell'economia mondiale, coordinato da Valerio Castronovo, un'opera che si
dipanera' in cinque volumi, con contributi di decine di studiosi italiani e
stranieri (tra i quali predominano largamente gli europei) pubblicati da
Laterza. Si ha forse uno dei primi, difficili ma indispensabili tentativi di
abbozzare una grande riflessione comune a livello continentale; il programma
culturale che Castronovo enuncia nell'introduzione, implica il superamento
delle barriere disciplinari e il recupero del gusto della sintesi. I primi
due volumi, usciti nel 1996 e nel 1997, ci guidano attraverso una serie di
rivoluzioni tecnologiche e di economie globali che si sono succedute sulla
faccia del pianeta a cominciare da quella neolitica fino ai primordi della
moderna economia-mondo. Il che dovrebbe farci riflettere sul fatto che
osservazioni come quella di Seneca sono echeggiate piu' volte nella storia e
indurci a non pensare che le trasformazioni tecnologiche e sociali che
stiamo vivendo, per quanto grandiose, manchino di precedenti. Infine, e'
importante segnalare un dialogo su "capitalismo globale e crisi sociale" tra
un sindacalista, Giorgio Cremaschi, e un accademico, Marco Revelli,
coordinato da Gabriele Polo e pubblicato dagli Editori Riuniti con il titolo
Liberismo o Liberta'. Esso segna il superamento, nella sinistra, di una
dimensione puramente demonizzante dei cambiamenti attuali, descritti talora
in maniera quasi caricaturale, come ne L'orrore economico di Viviane
Forrester. Elettronica e capitalismo globale, insomma, non possono essere
esorcizzati semplicemente sbandierando Il Capitale. Occorre prima di tutto
capire, a sinistra come a destra, e considerare che certe trasformazioni
sono ineluttabili. E una di queste trasformazioni e' l'abbandono di
"nicchie" concettuali, protette dalla tradizione e dall'abitudine (oltre che
da finanziamenti statali a universita' pubbliche, destinati fatalmente a
ridursi), in favore di un nuovo, grande confronto delle idee, a livello
europeo e mondiale. Mario Deaglio.
(c) 1998, La Stampa. 
Sources:LA STAMPA (ITALIAN LANGUAGE) 13/05/98 
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28Feb1998 BRASIL: Coleção de ensaios traz cardápio consistente. 
Obras ajudam a entender o presente, acertar contas com o passado e discutir
as alternativas para o futuro

EMIR SADEREspecialOdiscurso econômico é a forma mais mistificada de discurso
no mundo contemporâneo. Seu jogo interno de categorias, expressando uma
lógica fechada sobre si mesma, fala muito mais de si do que da realidade de
que deveria dar conta. Já nos anos 60, Fernando Henrique Cardoso, ainda
professor de Sociologia da USP, costumava recomendar como se deve tratar os
economistas: "Deve-se colocar as moedas e receber os dados. Deixa que a
gente faz a interpretação." Era uma época em que se lia Marx e se sabia que
a diferença entre uma teoria econômica de bases científicas e aquela
simplesmente apologética está em que a primeira reconhece que as relações
econômicas escondem relações sociais e de poder - a ela Marx reservava o
nome de economia política -, enquanto que a segunda recorta a realidade de
outras dimensões que não as imediatamente econômicas, reduzindo-se a uma
visão descritiva e, assim, consciente ou inconscientemente, apologética do
sistema econômico vigente. O discurso econômico strictu sensu é
economicista, escapa de qualquer determinante histórica, de qualquer
referência à luta de interesses entre as forças sociais, em sua
auto-suficiência. (Nota: a expressão mais caricatural disso veio de um
liberal neófito, o atual presidente do Banco Central, ao afirmar que toda a
orientação econômica brasileira desde os anos 30 incorreu no grave erro do
protecionismo, agredindo as leis puras do mercado, que nos teriam permitido
manter-nos como país primário-exportador até hoje, erro que o governo atual
tenta corrigir, tratando de fazer que voltemos a notabilizar-nos como
exportadores de café e de soja; talvez sua tenra idade e formação
tecnológica não lhe tenha ainda permitido perceber a existência da
história.)A lógica de seu discurso gerou o economicamente correto, uma visão
que só admite os equilíbrios monetários como horizonte definitivo da
humanidade. O resto seriam interesses corporativos, supérfluos gastos
sociais, fontes de desequilíbrios orçamentários, emprego de mão-de-obra
desqualificada, nível de emprego ameaçador em termos inflacionários,
potencial de consumo desequilibrante para a base monetária. Em suma, o resto
seriam categorias que apontariam para a realidade social e política, mero
epifenômeno das categorias monetárias para as autoridades econômicas e seus
ventríloquos.As duas décadas de hegemonia neoliberal se revelaram pobres
teoricamente. Dividem-se entre os que manejam os precários equilíbrios
micro-econômicos, montados em cavalos loucos da estabilidades monetária, a
partir dos quais sua visão da realidade tem a abrangência de um operador de
bolsa e o rigor de uma cartomante. E os que se aventuram pelo caminho da
história, apenas para explicar por que chegou a um termo final ou se limita
a conflitos entre a civilização definitiva - capitalista, liberal,
protestante, branca -, e seus desvios. Não por acaso as obras de sucesso dos
tempos neoliberais são os descartáveis livros de futurologia e os Nobeis de
economia que estudam o funcionamento aparentemente irracional das bolsas de
valores, tendo como contrapartida as obras de esoterismo e de auto-ajuda.
Não peçam teoria para ministros, presidentes de bancos centrais ou mesmo
presidentes da república que outrora já tentaram dar conta de uma realidade
que hoje lhes escapa e à qual se adaptam como podem, fazendo com que sua
"teoria" seja simplesmente uma bastarda justificativa de adaptações das
recomendações de organismos internacionais tutelados pelos grandes
bancos.Qualquer visão minimamente compreensiva de mundo de fim de século tem
que dar conta, antes de tudo, das transformações do capitalismo em escala
mundial. E tem de fazê-lo sem se abandonar à visão tão fácil quanto
enganadora de que se trata de uma realidade irrecorrível, diante da qual só
existiria a possibilidade de adaptar-nos a ela, conforme pregam o FMI e o
Banco Mundial e a que obedecem os governos com juízo (econômico).Os
principais debates sobre o período histórico atual se desenrolam exatamente
entre os que se apoiam em interpretações históricas sobre o capitalismo,
para decifrar a natureza da etapa, suas potencialidades e contradições.
Autores como Giovanni Arrighi, Immannuel Wallersterin, François Chesnais,
tem se destacado nesse debate, significativamente navegando em águas
totalmente desconhecidas pela bibliografia oficial, impermeável a qualquer
visão ancorada numa dimensão histórica.Essa bibliografia tem chegado ao
Brasil de forma acelerada ns dois últimos anos, a começar pelos livros já
clássicos de Arrighi - O Longo Século 20 - e de Chesnais - A Financeirização
da Economia, justamente quando o consenso neoliberal perde fôlego. Em ambos,
dentro de marcos interpretativos diferenciados, se ressalta a hegemonia do
capital financeiro como elemento determinante do período histórico atual do
capitalismo. É como se, refeito do quase nocaute que sofreu na última década
e meia, o pensamento crítico começasse a recobrar capacidade de iniciativa.
Ou se, como "a humanidade só se coloca os problemas que pode resolver", é
quando os horizontes do vôo da coruja se anunciam que os novos tempos podem
ser vislumbrados.O nome da coleção Zero à Esquerda nasceu quando Paulo
Arantes viu rejeitada sua proposta de que a revista Praga levasse esse nome.
Arantes se dedicou duplamente ao tema: primeiro, escrevendo o Almanaque
Philosóphico Zero à Esquerda, uma espécie de Febeapá da era FHC, onde foi
selecionando, - da mesma forma que Stanislaw Ponte Prata fez para o período
da didatura militar - as imbecilidades mais significativas do que ele
denomina de "ajuste teórico", para que o senso comum possa absorver o
Consenso de Washington. Em segundo lugar, criando uma coleção de que esse
pequeno manual faz parte, no seu primeiro pacote, junto a volumes de artigos
de Arrighi, de Robert Kurz e de José Luiz Fiori, assim como de um livro
organizado por Fiori e por Maria Conceição Tavares, a partir de um artigo
desta escrito em meados da década passada, prevendo a continuidade da
hegemonia norte-americana no mundo, mesmo antes do fim da URSS.O primeiro
pacote de livros fornece um mostruário variado da artilharia pesada que vem
por aí: Arrighi, Kurtz, Fiori, Conceição Tavares. Esses petardos se farão
seguir dos de Ignace Ramonet, Paul Hirst, Robert Castel, Francisco de
Oliveira, prometidos para abril, junto a um seminário com a participação dos
autores.Arrighi pertence à geração de intelectuais que, a partir do final
dos anos 60, se dedicou a atualizar as visões do marxismo sobre a dinâmica
de desenvolvimento do capitalismo, fora dos cânones do marxismo soviético,
que haviam tido em Varga seu apóstolo e nos manuais soviéticos seus textos
sagrados. Àquele grupo pertenceram também Samir Amin, Immanuel Wallerstein,
André Gunder Frank, Arghiri Emmanuel, Ruy Mauro Marini, entre outros.
Apoiavam-se na teoria da dependência e na do intercâmbio desigual, para
entender a periodização do capitalismo ao longo deste século.A contribuição
sistemática mais recente de Arighi está no já clássico O Longo Século 20
(Editoras Boitempo/Unesp), onde, apoiado nas teorias dos ciclos longos de
Braudel, refaz a trajetória do capitalismo e desemboca na conclusão de que
estamos no final de um desses ciclos, sem que esteja claro o desenho de seu
futuro. Na coleção de artigos intitulada A Ilusão do Desenvolvimento se
reúnem textos já publicados, como Século Marxista, Século Americano e
Trabalhadores do Mundo no Final do Século", a outros inéditos entre nós,
sobre as ondas longas, sobre a natureza do chamado "milagre asiático", sobre
a estratificação da economia mundial entre centro e periferia, sobre as
ilusões desenvolvimentistas e sobre a desigualdade mundial.Robert Kurz se
notabilizou pelas suas críticas radicais à viabilidade tanto de uma
recuperação do capitalismo de sua crise atual, quanto de qualquer forma de
superação baseada na sociedade do trabalho, como o marxismo se propõe a ser.
A realidade parece que insiste em dar razão a seu catastrofismo, ainda que
metodologicamente se conheça seus limites. Ao contrário dos artigos de
jornais, no livro da coleção, Os Últimos Combates, há análises mais
sistemáticas e sobre temas diferenciados, como o papel da intelligentsia, do
imperialismo e da União Européia, em geral retiradas da revista alemã
Krisis. Dentre todos se destaca particularmente o artigo que dá nome ao
livro, em que Kurz aborda o maio de 68, a greve dos trabalhadores do setor
público francês de 95 e os acordos trabalhistas na Alemanha.José Luís Fiori
tem sido o mais sistemático analista crítico do governo FHC, nascido para
levar a cabo o Consenso de Washington no Brasil, segundo suas análises. Em
Os Moedeiros Falsos, título tirado de Gide para se referir ao reino do
monetarismo atual, Fiori reúne materiais produzidos entre 1994 e 1997 sobre
a conjuntura política e econômica nacional desde o momento de lançamento do
Plano Real e da constituição do bloco de centro-direita no poder até o
presente.Completando o primeiro pacote da coleção, Fiori e Conceição Tavares
organizaram uma série de artigos, Poder e Dinheiro, que partem de uma
análise de Conceição, de 1985, em que ela previa que as transformações já em
andamento naquele momento na correlação de forças internacionais levariam à
consolidação e não ao questionamento da hegemonia norte-americana, como os
fatos só fizeram comprovar. Temas como a financeirização do capital, a
inserção internacional da América Latina e a expansão e crise da economia
japonesa são abordados por autores como Belluzzo. José Carlos Braga, José
Carlos Miranda, Carlos Medeiros, Luiz Eduardo Melin e Ernani Torres Filho,
além dos dois organizadores.Não somente para os que perderam dinheiro com a
crise das bolsas, mas principalmente para os que perderam a fé - ou nunca
tiveram - nos esquemas economicamente corretos da atualidade, o conjunto de
livros representa um cardápio consistente para entender o presente, acertar
contas com o passado e discutir as alterantivas possíveis para o futuro.Emir
Sader é professor de Sociologia na USP e autor de 'O Anjo Torto - Esquerda
(e Direita) no Brasil (Brasiliense) e 'O Poder, Cadê o Poder? (Boitempo),
entre outros livros.
(c) 1998, AGÊNCIA ESTADO LTDA. 
Sources:O ESTADO DE S.PAULO 28/02/98 
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27Dec1997 BRASIL: Do mito à ilusão do desenvolvimento. 
Por JOSÉ ELI DA VEIGA.
Acaba de ser lançado um livro intitulado A Ilusão do Desenvolvimento, do
sociólogo italiano Giovanni Arrighi (Vozes, 1997). Referindo-se
especificamente aos países semiperiféricos, como o Brasil, o autor diz ser
quase impossível cruzar o golfo que os separa da fortuna do núcleo orgânico
da economia mundial, como chegou a acontecer com o Japão. Mesmo assim não
considera ineficazes os esforços desses Estados, pois sem tais esforços eles
cairiam na pobreza abismal dos países periféricos.Isso faz lembrar que, há
mais de 20 anos, Celso Furtado publicou um livro com um título parecido, mas
com argumentação bem diferente. Em O Mito do Desenvolvimento Econômico (Paz
e Terra, 1974), Furtado defendeu a tese da impossibilidade prática de
generalizar os padrões de vida característicos dos países centrais ao resto
do planeta. "O custo, em termos de depredação do mundo físico, desse estilo
de vida, é de tal forma elevado que toda tentativa de generalizá-lo levaria
inexoravelmente ao colapso de toda uma civilização, pondo em risco as
possibilidades de sobrevivência da espécie humana" (pág. 75).No entanto,
mesmo convencido de que os povos pobres não teriam chance de desfrutar das
formas de vida dos povos ricos, Celso Furtado salientava a utilidade da
idéia de desenvolvimento. "Sabemos agora de forma irrefutável que as
economias da periferia nunca serão desenvolvidas, no sentido de similares às
economias que formam o atual centro do sistema capitalista. Mas, como negar
que essa idéia tem sido de grande utilidade para mobilizar os povos da
periferia e levá-los a aceitar grandes sacrifícios, para legitimar a
destruição de formas de cultura arcaicas, para explicar e fazer compreender
a necessidade de destruir o meio físico, para justificar formas de
dependência que reforçam o caráter predatório do sistema produtivo? Cabe,
portanto, afirmar que a idéia de desenvolvimento econômico é um simples
mito" (pág. 75).É interessante notar como o ceticismo de Furtado nos já
longínquos anos 70 e o de Arrighi no anos 90 são ambos temperados pela
necessidade de destacar a "utilidade" ou a "eficácia" da idéia de
desenvolvimento. Certamente é porque não lhes escapou que sem ela não pode
haver visão de futuro sobre a qual a sociedade estabeleça suas esperanças e
seus projetos. No fundo, a "utilidade do mito" em Furtado como a "eficácia
da ilusão" em Arrighi são provas de que a idéia de desenvolvimento continua
a ser aquela que melhor exprime a utopia da sociedade moderna (entendendo-se
utopia em seu sentido filosófico, e não em sua versão vulgar na qual é
sinônimo de sonho ou fantasia).O que continua a dar força à idéia de
desenvolvimento é a esperança de uma vida melhor para os desvalidos, e não
possíveis sonhos e fantasias sobre as chances de os países semiperiféricos
entrarem no Primeiro Mundo, ou sobre a possibilidade de generalização dos
padrões de vida do núcleo central. Por isso, enquanto não surgir uma noção
que melhor sintetize essa esperança, não há motivo para se dispensar a idéia
de desenvolvimento, por mais ambigüidades que ela possa conter.Foi essa
esperança que levou outros intelectuais à elaboração de indicadores de
desenvolvimento que pudessem combinar objetivos sociais e metas de
crescimento. Aliando o otimismo da vontade ao pessimismo da razão,
estudiosos como Amartya Sen e Michael Lipton ajudaram a lançar, em 1990, a
melhor medida disponível de desenvolvimento: o Índice de Desenvolvimento
Humano (IDH). Hoje, a ONU não somente define como avalia o desenvolvimento
pelo alargamento das escolhas das pessoas.As escolhas mais importantes são:
viver uma vida longa e saudável, ser instruído e gozar de um nível de vida
adequado. Escolhas adicionais incluem liberdade política, garantia de outros
direitos humanos e vários outros elementos ligados ao auto-respeito -
incluindo o que Adam Smith chamava de capacidade de envolver-se com os
outros sem ficar "com vergonha de aparecer em público". Essas são algumas
das escolhas essenciais e a sua ausência pode bloquear muitas outras
oportunidades. O desenvolvimento humano é, assim, um processo de alargamento
das escolhas das pessoas, bem como de elevação do nível de bem-estar
atingido (Pnud, Relatório do Desenvolvimento Humano 1997, pág. 15).Com essa
definição, qualquer país pode ser avaliado por suas realizações médias em
três dimensões básicas do desenvolvimento: longevidade, conhecimento e
padrão de vida. Foi, assim, construído o índice composto por três variáveis
relativamente simples: esperança de vida, nível educacional e PIB real per
capita. As vantagens dessa abordagem sobre as anteriores são óbvias. O único
problema é que existe uma inclinação da ONU a reduzir a ambição do
desenvolvimento a uma agenda de erradicação da pobreza. Se isso pode
funcionar é tema para outro artigo.José Eli da Veiga, professor do
Departamento de Economia da FEA-USP, é presidente do Programa de
Pós-Graduação em Ciência Ambiental da USPE-mail: zeeli@usp.br.
(c) 1997, AGÊNCIA ESTADO LTDA. 
Sources:O ESTADO DE S.PAULO 27/12/97 
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30Nov1997 BRASIL: Livros - O embate Arrighi x FHC. 
São Paulo, domingo, 30 de novembro de 1997.

FERNANDO HADDAD
especial para a Folha

O leitor brasileiro já conhece o trabalho de Giovanni Arrighi intitulado "O
Longo Século 20". O livro foi muito bem recebido entre nós, como, aliás, em
todo lugar. No que diz respeito à nossa história, no entanto, suponho que "A
Ilusão do Desenvolvimento" desperte um interesse maior. Ainda que seu objeto
não seja propriamente o Brasil, creio que esse livro ajude a iluminar nossa
condição de nação semiperiférica.
Naquele trabalho seminal, Arrighi aceita a concepção braudeliana de uma
economia estruturada em três andares - o da produção material, o do mercado
e o das altas finanças-e centra suas análises nesse último, interessado que
estava em elucidar as mudanças espaciais no alto comando da economia
mundial. Dessa história, nós brasileiros não somos protagonistas. Nesse
livro, Arrighi desce também aos andares inferiores, estudando tanto as
relações centro-periferia quanto as relações capital-trabalho. Nesses
andares, o Brasil ganha uma posição de destaque. Além disso, "A Ilusão do
Desenvolvimento" oferece um rico esquema analítico para avaliar
objetivamente as pretensões do governo FHC de proporcionar ao país um ciclo
de desenvolvimento que nos aproximará do chamado núcleo orgânico da economia
mundial.
A sociologia de Arrighi é, por assim dizer, uma sociologia das disjunções.
Arrighi, tal como Marx, aborda o processo de acumulação de capital, só que
inserido num contexto onde a disputa entre os Estados é tão importante
quanto a concorrência entre capitais. Ao fazê-lo, Arrighi percebe que muito
daquilo que na teoria marxista permanece logicamente conectado, na verdade,
realiza-se historicamente de forma desconexa quando introduzida essa
variável de inspiração weberiana. E essas importantes disjunções podem ser
observadas nos três andares do esquema de Braudel.
"No andar superior", Arrighi aponta para a disjunção entre as relações de
poder no sistema inter-Estados e as relações de liderança econômica no
sistema inter-empresas, o que abre a possibilidade de pensar uma dispersão
espacial disforme do poder econômico das empresas e do poder militar dos
Estados. Segundo Arrighi, isso aconteceu no final do século passado, quando
os EUA assumiram a liderança econômica graças a uma prática mista de
protecionismo estatal e integração vertical das empresas, permanecendo, não
obstante, uma potência militar secundária. Essa disjunção exacerbou o
conflito inter-Estados, sendo que a fase de prosperidade que se seguiu
(1896-1914) foi o resultado dos gastos militares associados à escalada desse
conflito, e a fase depressiva (1914-45) assumiu a forma peculiar de uma
competição militar entre os Estados, particularmente Inglaterra e Alemanha,
em vez de entre empresas e inter-Estados.
Segue-se daí mais um período de prosperidade (1945-73), caracterizado pela
tentativa das empresas dos demais países, particularmente o Japão, de
alcançar as vantagens organizacionais das empresas americanas. Quando isso
ocorre, o acirramento da competição lança a economia mundial numa nova fase
depressiva. Durante a crise econômica mundial dos anos 70-80, contudo, foram
as empresas do Leste asiático que a enfrentaram com maior vantagem
competitiva, graças a um sistema específico de relações inter-empresas que
se irradiou por toda região, inclusive a China: o sistema de subcontratação
de múltiplas camadas. A expansão econômica leste-asiática pode significar,
segundo Arrighi, a imigração, por meio do Pacífico, do centro geopolítico
dos processos de acumulação de capital. Contudo, diferentemente da transição
do poder econômico britânico para o americano, a transição atual não se
beneficiou de um estado de guerra aberto entre os EUA e a antiga URSS. O
Japão financiou os custos da escalada da Segunda Guerra Fria dos anos 80 sem
extrair dessa "ajuda" as vantagens auferidas pelos EUA quando financiaram a
campanha militar da Inglaterra contra a Alemanha. Desse modo, aquela
disjunção entre o poder econômico do sistema inter-empresas e o poder
militar do sistema inter-Estados pode estar sendo gestada novamente, com
resultados imprevisíveis.
"No andar intermédio", a disjunção é de outra natureza. Aqui, Arrighi
explora os efeitos da divisão do trabalho no plano internacional. Segundo
ele, é precisamente esse fator que divide o mundo em núcleo orgânico - onde
se realizam as atividades "cerebrais"-e periferia - onde se realizam as
atividades "neuromusculares". As atividades "cerebrais" são aquelas
associadas ao fluxo de inovações que a concorrência intercapitalista enseja.
Como se sabe desde Schumpeter, essas atividades de "destruição criativa"
proporcionam aos agentes inovadores aqueles ganhos superiores ao lucro médio
proporcionado pelas atividades rotineiras "neuromusculares".
Para Arrighi, contudo, do mesmo modo que Schumpeter supôs que as inovações
orientadas para o lucro e seus efeitos se agrupam "no tempo", podemos supor
que se agrupem "no espaço". O desafio está em explicar por que isso
acontece, uma vez que o agrupamento no tempo é produto direto da própria lei
da concorrência, enquanto o agrupamento no espaço é uma subversão dessa lei.
Aqui entra em cena novamente a hipótese da multiplicidade de jurisdições
políticas. Quando empresas de determinada localidade começam a inovar, elas
fortalecem indiretamente o poder político da jurisdição na qual operam, que,
por sua vez, terá maior liberdade para criar um ambiente
jurídico-institucional e de infra-estrutura econômica (externalidades) mais
favorável para a atividade inovadora, num processo circular e cumulativo.
O núcleo orgânico goza, assim, de uma riqueza "oligárquica"
não-universalizável. Ao contrário, as tendências do processo implicam uma
polarização crescente da economia mundial numa zona periférica e numa zona
de núcleo orgânico. Os dados, entretanto, revelam a existência de um
conjunto de países semiperiféricos que consegue resistir à periferização,
embora não acumule forças para superá-la. Esses países, de alguma forma,
conseguem isolar as atividades típicas de núcleo orgânico de dentro de suas
jurisdições das pressões competitivas mundiais, mas, ao fazê-lo, privam-nas
de possíveis economias de escala e daquele ambiente competitivo que favorece
o processo de inovação. Dessa forma, os países semiperiféricos
industrializam-se sem se desenvolver, crescem, mas apenas para permanecer no
mesmo lugar, relativamente aos países do núcleo orgânico.
"No andar inferior", finalmente, Arrighi observa mais uma disjunção. Segundo
ele, o marxismo imaginou um cenário no qual o crescente poder social do
operariado, derivado da associação resultante do avanço da indústria, e a
crescente penúria do operariado, derivada da concorrência entre os operários
no mercado de trabalho, criariam uma situação revolucionária. Contudo, para
Arrighi, o poder social e a penúria do operariado realmente cresceram
conforme as previsões, mas de forma polarizada, com o proletariado em
algumas regiões experimentando um aumento de poder social, e o proletariado
de outras regiões experimentando um aumento da penúria. Essa disjunção é o
elemento principal da explicação da cisão no pensamento marxista entre
revisionistas e leninistas. Para Arrighi, se se toma o período 1896-1948,
encontram-se evidências que validam tanto as concepções revisionistas quanto
as leninistas.
O proletariado de alguns países conseguiu pelos métodos propostos por
Bernstein transformar seu crescente poder social em maior bem-estar
econômico e maior representação política. O mesmo período conheceu também os
maiores sucessos da revolução socialista, levados a cabo por vanguardas
revolucionárias que assumiram o controle dos governos de quase metade da
Eurásia, cuja legitimidade se assentava no empobrecimento das massas
exploradas cada vez mais numerosas. Contudo, se a penúria maciça era a base
do movimento revolucionário, depois da tomada do poder ela se tornou um
completo embaraço, impondo às camadas dirigentes socialistas a realização de
desagradáveis tarefas que a burguesia deposta foi incapaz de cumprir, entre
elas, a proteção militar contra agressões estrangeiras, e subordinando os
interesses autênticos do proletariado a sua consecução.
Tudo somado, o que se viu foi que, "onde o poder social do proletariado era
significativo e crescente, a revolução socialista não teve clientela; e onde
a revolução socialista teve clientela, o proletariado industrial não teve
poder social". A história dessa disjunção só começa a mudar com a crise
sistêmica que teve início nos anos 70. Essa crise, resultante do esgotamento
da revolução organizacional norte-americana, dá ensejo a uma corrida ao
corte de custos, que acarreta um aumento da penúria do proletariado do
núcleo orgânico ao mesmo tempo que provoca uma redistribuição do seu poder
social em benefício do proletariado periférico e semiperiférico.
Tais considerações feitas, no que concerne ao Brasil, o que o modelo
arrighiano ensina? Se tomarmos as intervenções públicas mais sistematizadas
do sociólogo FHC, podemos observar que seu prognóstico otimista do governo
FHC assenta-se em três premissas diretamente relacionadas aos três andares
estudados. FHC acredita 1) que a economia mundial está entrando em um novo
ciclo longo de desenvolvimento econômico; 2) que as economias
semiperiféricas não têm o seu destino selado, podendo aproveitar as
oportunidades para uma inserção muito vantajosa na economia mundial e
diminuir a distância que as separa do núcleo orgânico; 3) que uma inserção
desse tipo poderá representar ganhos para todas as camadas sociais,
particularmente para os trabalhadores.
O sociólogo Giovanni Arrighi diria o seguinte: 1) embora a fase depressiva
do último ciclo econômico esteja parcialmente superada e o mundo esteja em
fase de ajustes institucionais importantes, não é absolutamente certo que o
ímpeto econômico do Leste asiático seja suficiente para tirar toda economia
mundial do presente impasse, e a chamada retomada americana, eu
acrescentaria, parece também não possuir tal força; 2) mas, mesmo que a
economia mundial entre nos eixos, a lei de ferro que divide o mundo em
periferia, semiperiferia e núcleo orgânico continua em pleno vigor. O modelo
de Arrighi não exclui a possibilidade de mobilidade ascendente e descendente
de países semiperiféricos isoladamente considerados. Contudo o que a
experiência do pós-guerra mostra é que os casos de mobilidade são
raríssimos, sendo que a expressão "milagre econômico" só cabe para descrever
a trajetória japonesa, cuja arrancada está associada à revolução
organizacional que introduziu o sistema de subcontratação ou acumulação
flexível. Ora, o governo FHC mais copia do que cria, combinando voluntarismo
mimético internacional com tom professoral doméstico; 3) por fim, se, por
uma conjuntura favorável dos astros, o cálculo presidencial até aqui desse
certo, o que o modelo arrighiano sugere é que, ainda assim, na atual
conjuntura, isso não representaria uma reversão da tendência do aumento da
penúria do proletariado mundial, mesmo dos países economicamente dinamizados
pelo processo.
Arrighi ou FHC? Os dois sociólogos são suficientemente inteligentes para
saber que seus prognósticos são apostas que podem ser derrotadas pela
história. O problema é que um deles é presidente da República e não lhe cabe
fazer apostas sem as devidas salvaguardas sociais que, hoje, se resumem a
uma coisa: o fortalecimento da democracia. Pessoalmente, não vejo uma única
instituição ou princípio, de cuja força depende a vitalidade da democracia,
sair revigorados da era FHC, sejam os partidos, a divisão de poderes, os
sindicatos, a sociedade civil etc. A não ser que se confunda, como quer o
presidente, sociedade civil e mercado (pobre Gramsci!).
P.S. Este artigo é uma versão modificada do prefácio ao livro "A Ilusão do
Desenvolvimento", de Giovanni Arrighi, lançado pela Coleção "Zero à
Esquerda" da Editora Vozes. Foi escrito em setembro deste ano, portanto,
antes do crash das Bolsas, com o intuito de demonstrar a oportunidade da
publicação dos ensaios de Arrighi para compreender a atual conjuntura
política brasileira. No embate entre FHC x Arrighi, o recente golpe no Plano
Real representa, para os otimistas, uma simples vitória por pontos nos
primeiros "rounds" do combate, enquanto, para os pessimistas, trata-se de um
verdadeiro "knock out". Ninguém no governo, contudo, deixa de reconhecer o
abalo que ele provoca nas formulações do sociólogo-presidente. Ele próprio
parece reconhecê-lo ao iniciar as articulações em torno de sua possível
candidatura à Secretário Geral da ONU. Se, do ponto de vista material, tudo
sugere a impossibilidade de chegarmos ao Primeiro Mundo, talvez do ponto de
vista simbólico a operação seja possível, desde que se estabeleça a mesma
confusão de que Fernando Henrique e o Brasil sejam a mesma coisa.

Fernando Haddad, mestre em economia e doutor em filosofia, é professor de
ciência política da USP.

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 30/11/97 
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30Nov1997 BRASIL: Nova coleção traz temas políticos. 
São Paulo, domingo, 30 de novembro de 1997.

da Redação

A Editora Vozes está lançando neste mês os primeiros volumes da coleção
"Zero à Esquerda", coordenada pelos professores Paulo Eduardo Arantes e Iná
Camargo Costa.
O texto reproduzido nesta página é uma versão modificada do prefácio de "A
Ilusão do Desenvolvimento" (371 págs., R$ 31,00), do economista italiano
Giovanni Arrighi, um dos títulos publicados.
Os demais volumes editados neste mês são:
"Os Últimos Combates" (394 págs., R$ 32,00), de Robert Kurz - Coletânea de
conferências e artigos (inclusive os publicados na Folha) do pensador
marxista alemão Robert Kurz.
"Diccionario de Bolso" (83 págs., R$ 7,00), de Paulo Eduardo Arantes -
Crítica e sátira à vida intelectual e política brasileira atual, a partir de
citações de pensadores, jornalistas e políticos extraídas de jornais, além
de definições e aforismos do autor.
"Os Moedeiros Falsos" (239 págs., R$ 19,00), de José Luís Fiori - Reúne uma
série de artigos em que o economista aborda questões como o conceito de
"governabilidade" e a guinada neoliberal dos países latino-americanos nos
anos 90.
"Poder e Dinheiro" (410 págs., R$ 34,00) - Organizado por Maria da Conceição
Tavares e José Luís Fiori, ensaístas analisam os efeitos da globalização
sobre as economias nacionais, sobretudo de países periféricos.
Na coleção, serão lançados também "Metamorfoses da Questão Social", de
Robert Castel, e "Terrenos Vulcânicos", de Dolf Oehler, entre outros.

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Sources:FOLHA DE S.PAULO 30/11/97 
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05Apr1997 ITALIA: Il novecento? nato - a Londra muore a est. 
Di Giovanni Vigo.
Secolo breve o secolo lungo, il Novecento? Per Eric Hobsbawm il Novecento é
tutto condensato negli eventi che si sono consumati fra il 28 luglio 1914
(giorno in cui ebbe inizio la prima guerra mondiale) e il 31 dicembre 1991,
quando dal pennone piu' alto del Cremlino venne definitivamente ammainata la
bandiera dell'Unione Sovietica. Per Giovanni Arrighi, invece, il XX secolo
era giá iniziato nell'ultimo quarto dell'Ottocento ed é probabilmente
destinato a superare la soglia del terzo millennio (Il lungo XX secolo.
Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, 509 pagine,
62.000 lire).
A queste conclusioni Arrighi é giunto alla fine di un lungo percorso.
Cercando di far luce sul ruolo del capitale finanziario in questo scorcio di
secolo, si é chiesto se il predominio degli Stati Uniti avesse in sé
qualcosa di irripetibile, oppure se non si trattasse di un'esperienza giá
sperimentata in passato. Percorrendo a ritroso i secoli dell'etá moderna
attraverso la grandiosa ricostruzione compiuta da Fernand Braudel in Civiltá
materiale, economia e capitalismo, é giunto alla conclusione che il secolo
americano altro non é se non l'ultima fase di un lungo ciclo aperto nel
Quattrocento dai genovesi e proseguito poi dagli olandesi e dagli inglesi.
In estrema sintesi l'argomentazione di Arrighi é la seguente: in ciascuna
fase di sviluppo del capitalismo, lo stadio della maturitá coincide con il
prevalere delle transazioni finanziarie rispetto alle transazioni
commerciali che caratterizzano invece lo stadio iniziale. Questo modello si
adatta perfettamente al ciclo genovese che domino' i secoli XV e XVI, a
quello olandese che raggiunse l'apogeo tra Sei e Settecento, a quello
britannico che si chiuse in maniera traumatica con la prima guerra mondiale,
ma che aveva giá mostrato vistose incrinature nei decenni precedenti.
In questo dopoguerra, all'apice del suo successo, l'economia americana ha
subito una profonda metamorfosi in senso finanziario e, se l'esperienza
insegna qualcosa, cio' vuol dire che gli Stati Uniti si apprestano a cedere
il passo a qualche altra potenza. A meno che l'America non riesca ad
"appropriarsi, attraverso la forza, l'astuzia o la persuasione, dei capitali
eccedenti che si accumulano nei nuovi centri".
In questo caso verrebbe meno l'anima stessa del capitalismo, quella capacitá
di competizione e di adattamento che aveva stupito Fernand Braudel.
L'alternativa che Arrighi intravede si colloca dall'altra parte
dell'emisfero: "Il capitale dell'Asia orientale potrebbe giungere a occupare
una posizione dominante nei processi sistemici di accumulazione... La storia
del capitalismo dunque continuerebbe, ma in condizioni radicalmente diverse
da quelle esistite a partire dalla formazione del moderno sistema
interstatale".
Un epilogo un po' deludente se commisurato alla dimensione delle sfide che
ci squaderna davanti agli occhi il terzo millennio. Oggi l'interrogativo
cruciale non é piu' quello di Schumpeter ("puo' il capitalismo sopravvivere
al suo successo?") bensi' quello, assai piu' drammatico, riguardante le
possibilitá della moderna civiltá industriale di conquistare l'intero
pianeta diffondendo, insieme al benessere, la democrazia e la libertá. Senza
dimenticare che il nodo decisivo resta quello della redistribuzione delle
risorse in senso piu' egualitario.

(c) 1997 Il Mondo. 
Sources:ITALIAN LANGUAGE 
IL MONDO 5/4/97 P55 
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25Oct1996 ITALIA: CIOCCA (BANKITALIA), CRESCITA SOLO SE I TASSI CALANO. 
(ANSA) - MILANO, 25 ottobre - Una crescita economica "stabile, sostenibile,
sostenuta non potra' aversi se il tasso reale d' interesse a lungo termine
continuera' a superare del 100 per cento e piu' il ritmo d'incremento del
prodotto potenziale delle economie industriali": e' quanto scrive il
responsabile della ricerca economica di Banca d'Italia, Pierluigi Ciocca,
nell' intervento previsto per la conferenza internazionale della Fondazione
Eni Enrico Mattei in corso in questi giorni a Milano. Ciocca non ha
partecipato alla conferenza, ma il suo intervento e' stato letto oggi dal
sociologo Giovanni Arrighi. "Oggi, i tassi reali sono sul quattro-cinque per
cento - spiega Ciocca - il ritmo di incremento del 'potential output' sul
2,5 per cento". E, per l'economista, "il circolo vizioso" puo' essere
spezzato solo "promuovendo una discesa non inflazionistica dei tassi reali
di interesse". Per ridurre il tasso reale di interesse "occorre rendere le
aspettative della finanza meno 'bearish', meno ribassiste - scrive Ciocca -
La politica economica che puo' correggere in meglio le attese deve essere,
pur essa, non solo nazionale, ma anche sovranazionale, quanto meno
attraverso una piu' salda coordinazione delle politiche economiche e
monetarie dei principali Paesi". Per quanto riguarda l'Italia, Ciocca
definisce "interessante" il caso italiano degli "ultimi due anni, di
disinflazione con perdite di produzione contenute". CB.
(c) 1996 ANSA. 
Sources:ITALIAN LANGUAGE 
AGENZIA NAZIONALE STAMPA ASSOCIATA (ITALIAN) 25/10/96 
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